di Costanza Pasquali Lasagni
Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale
Volevamo fare una scappata ad Hebron per comprare alcune kefye, il fazzoletto a scacchi palestinese che gli sheykh, gli anziani, usano per coprirsi la testa e gli shebab per coprirsi il viso, ed ora è sdoganato come foulard quotidiano e accessorio alla moda. Non possiamo farci sfuggire gli ultimi colori, è chiaro.
A Hebron è rimasta l’ultima fabbrica originale di kefye, rigorosamente made in Palestine, a tener testa all’invasione di teli cinesi e indiani che vengono rifilati a caro prezzo ai turisti in Città Vecchia a Gerusalemme. Ho una shopping list abbastanza lunga e variegata, di colori e destinatari intendo. Le macchine tessono a tutto andare, noi guardiamo allibiti, come nel giro di pochi minuti fili colorati, o bianchi e neri, formino magicamente il tessuto, sotto l’occhio attento di Arafat, che ci guarda da una fotografia appesa al muro, accanto ad una bandiera cubana.
È Ramadan, e il mercato di Hebron è allegro e colorato come non mai. I commercianti ricevono dei sussidi pubblici per tenere aperti i negozi, i quali brulicano di persone indaffarate a fare acquisti. Il Ramadan è tempo di regali, di offerte, di generosità. Pasticcieri cuociono le frittelle che saranno riempite di formaggio o noci tritate e miele, i qatayef, i fornai sfornano torri di pite calde e profumate, i macellai espongono orgogliosamente gli agnelli sgozzati e scuoiati, e gabbie di polli e pulcini, i sottaceti di tutti i colori, principalmente fucsia, per le barbabietole e gialli, per i cavolfiori, colorano le strade e il loro odore di aceto stimola l’acquolino. Ma c’è ancora da aspettare per l’Iftar, la rottura del digiuno, sono solo le 2 di pomeriggio. La giornata è ancora lunga, e calda.
L’atmosfera è gioiosa e vitale, e per un paio di ore ci scordiamo delle reti di metallo che sovrastano il mercato, a proteggere mercanti e passanti dagli attacchi delle comunità non palestinesi che vivono nei palazzi antichi: 4,000 soldati, 8 checkpoints in pieno centro città – 18 in tutta la città – e strade chiuse sono alcuni dei mezzi gentilmente offerti dallo stato (l’altro) per proteggere i 500 coloni che dagli anni novanta vivono a Hebron, e, un pezzetto alla volta, una casa alla volta, dalla periferia sono arrivati alla citta’ vecchia.
In realtà alzare lo sguardo è un attimo. La rete è lì, che quasi la potresti toccare, tra il piano terra e il primo piano, ormai arrugginita. Trattiene buste di plastica, sassi – più o meno grandi, che di certo se ti cadono in testa bene non ti fanno – immondizia di vario genere. La strada parallela a quella del mercato, Shuhada Street, la via dei Martiri, è totalmente chiusa, da decenni. Le serrature di metallo dei negozi sono state saldate dall’esercito, filo spinato e reti di metallo all’inizio, alla fine e ad ogni vicolo potenzialmente connesso, sbarra l’accesso. Le case di Shuhada Street sono bellissime. Bellissime e vuote. La strada è vuota. Solo pochi ragazzi, israeliani, o famiglie di ultra-ortodossi vi passeggiano. Ai palestinesi l’accesso è vietato, a meno che non appartengano a qualcuna delle poche famiglie che nonostante tutto rimangono lì. Molte altre se ne sono andate da anni, negozi sprangati. I residenti palestinesi, quei pochi rimasti, non possono ricevere ospiti, o possedere coltelli. Devono passare attraverso i checkpoint per tornare a casa loro. E il casotto dei militari è stretto, il nastro del tapis roulant suona in continuazione, immagina se hai le buste della spesa, o lo zaino della scuola.
È difficile comprare kefye e basta a Hebron, meno male che c’è la sua vitalità a compensare il grigiore delle inferriate, o forse è proprio per questo che si respira un’aria di vita e resilienza come in pochi altri posti. La violenza c’è ma non sempre si vede. Hebron è l’area della Palestina dove i minori sono più esposti ad ambienti violenti, a casa, a scuola, per strada. Dove la percentuale di bambini in strutture detentive (non palestinesi) è maggiore rispetto alla “media”, se di media si puo’ parlare, mi spiega A., che lavora con gruppi di adolescenti da anni, per aiutarli a sviluppare modalità relazionali alternative alla violenza e ad avere un impegno civico a servizio della comunità. La pace, in molte aree della Palestina, la costruiamo così. La perdita di speranza nel presente, prima ancora che nel futuro, è la prima conseguenza di un ambiente instabile, volatile, violento. Figuriamoci se nasci in un posto dove non puoi nemmeno camminare fuori da casa tua.
Hebron è il posto dove tutti dovrebbero venire, prima ancora di fare un giro in Città Vecchia o a Betlemme. Non solo attivisti, operatori umanitari, osservatori e giornalisti. Tutti.
Turisti, gente di passaggio, persone “ordinarie”, affinché possano vedere l’ “ordinarietà” che si vive lì, dove accanto al traffico incasinato, i clacson, le bancarelle di frutta, i ragazzini che per qualche shekel ti portano la spesa del mercato in un carrello del supermercato rimediato chissà dove – nell’area H1, totalmente sotto il controllo palestinese – si snoda un’area labirintica, silenziosa, fredda come il metallo che la separa, la H2, dal 1994 esclusivamente sotto il controllo israeliano, dove torrette, telecamere e occhi sai che ti guardano e non te ne faranno passare una. Dove le scuole religiose di nuova costruzione si stagliano, circondate dai loro fili spinati e telecamere e grate alle finestre, accanto alle antiche case ottomane e mamelucche del centro e isolandole come quando vernici tutto intorno e non hai più vie di uscita.
Il cuore si strazia ogni volta a Hebron, non basta una kefya fucsia o una scatola di dolci turchi gelatinosi e coperti di zucchero a velo ad addolcire l’umore. Anche il negozio dei dolci, a poche decine di metri dal checkpoint che porta alla Moschea, è l’ultimo del suo genere. Con metà mercato sbarrato, le tensioni, i pochi turisti, i negozi storici stanno chiudendo. Non bastano gli occhi di commercianti anziani che in sessant’anni ne hanno viste di tutti i colori, e ti raccontano storie mentre srotolano un polveroso tappeto beduino che era sepolto sotto i teli da chissà quanto tempo. Non bastano i bambini che ti riempiono di sorrisi in cambio di un selfie o un braccialetto con la bandiera palestinese.
O forse sì, bastano, nel momento in cui sai che è tutto questo, tutto inzimmula, come direbbe il commissario Montalbano, che un pezzetto alla volta forma quella struttura unica chiamata capitale umano.
In Palestina si dice che gli Hebroniti, la gente di Hebron, siano particolarmente testardi, ostinati, e pieni di risorse. Io, che non credo alle predestinazioni ne’ alle identità precostituite, credo che sia semplicemente un modo geniale di darsi forza l’un l’altro, di usare tutte le risorse – umane, economiche, culturali – a disposizione per andare avanti. Hebron è anche il motore dell’economia palestinese, presto sorgerà un futuro polo scientifico, il primo della Palestina, la Municipalità ha i servizi online ed è in prima linea nello sviluppo locale e nei servizi al cittadino, mentre io ci ho messo sei mesi solo a spostare la mia residenza romana.
Sarà tutto questo insieme, i dolci, i cavolfiori gialli, il ristorante-tappa obbligata-King of Felafel e la fila che si snoda fuori, il sindaco gentile e le signore della cooperativa, a farti alzare la testa, guardare la strada vuota e bloccata e pensare che forse quella strada è solo una delle tante battaglie di una guerra molto più ampia, che si gioca su tanti altri fronti, e che finché il mercato sarà vivo, e la camera di commercio sarà un punto di riferimento dell’impresa palestinese, e al supermercato sceglierai il labne Jibrini, una marca di latticini di Hebron, saprai che forse una strada può essere chiusa, ma il cuore e la testa delle persone no.
3Alli al Kufye, “innalza la kefya”, canzone storica palestinese, canta l’Arab Idol Mohammed Assaf, che è riuscito, in un paio di serate, a unire palestinesi di qua e di là e fratelli arabi around the world più di quanto abbiano fatto le agende politiche dei leader arabi e palestinesi negli ultimi decenni.
È questo che auguro a Hebron, a Gaza, a tutti i miei amici, mentre torno alla macchina, carica di pacchetti e nuovi coccetti colorati, mentre cuore e stomaco cercano, come al solito, di fare pace.
Innalza la kefya, Palestina.