di Gabriele Battaglia, da Pechino
tratto da ChinaFiles
Qualcuno ha giocato sporco. Così, il ministero cinese della Pubblica Sicurezza ha inviato una task force guidata dal viceministro Meng Qingfeng alla China Securities Regulatory Commission (la Consob cinese), per il lancio di un’inchiesta a tutto campo su “vendite allo scoperto dannose”. In pratica, si sospetta che la tempesta che ha investito le borse nel corso dell’ultimo mese, sia stata causata anche dalla manipolazione interessata di titoli e futures. Sotto i riflettori, in particolare, le vendite allo scoperto – short selling – cioè quella pratica che consente di “scommettere” non solo sul buon andamento di un titolo, ma anche sul suo calo. Che una quinta colonna di cinici speculatori si annidi tra i milioni di “gnomi” del mercato azionario cinese, poco importa: come in una saga dell’età imperiale, si deve trovare il colpevole, il villano da immolare pubblicamente nel supplizio del legno di sandalo.
Pechino cerca da tempo di rendere più dinamico e interessante il proprio mercato azionario, per attirare quei capitali che le consentirebbero un rilancio dell’economia nei settori chiave dell’innovazione e delle tecnologie. Al tempo stesso, memore della crisi dei mutui subprime negli Stati Uniti (2006-08) e degli attacchi speculativi all’Euro (2011), intende però evitare che le pratiche più spregiudicate diffuse in Occidente si impossessino del mercato. C’è un solo imperatore sotto il Cielo e anche nel settore finanziario la sovranità non può essere ceduta. Meno che mai a invisibili forze esterne, quelle dell’economia di carta sovranazionale.
Chiamiamolo “fattore P”, cioè il ruolo della politica che, come ben sanno i piccoli investitori cinesi, è la variabile da tenere d’occhio quando si deve scegliere su cosa investire. Il che dà però spesso luogo a un’eterogenesi dei fini rispetto alle intenzioni del governo.
Pechino vuole scoraggiare gli investimenti nel mattone? D’accordo, messaggio ricevuto, ci investo un po’ meno. Ma considerando che il governo non può inimicarsi il nuovo ceto medio costituito da un’orda di proprietari immobiliari, bè, sai che c’è? un pochino ci investo lo stesso.
Ogni messaggio politico induce reazioni che possono essere diametralmente opposte tra loro perché l’economia cinese si regge comunque sull’idea che se gira male arriverà il salvataggio politico.
Il salvataggio è arrivato puntuale dopo il calo delle borse che si è verificato nell’ultimo mese. Pechino ha arrestato la correzione al ribasso navigando a vista – secondo consolidato metodo sperimentale – e attuando diverse misure, nella tradizione dell’“interventismo” che si verifica quando gli eccessi del mercato mettono tutto il sistema a rischio.
Ripercorrendo velocemente:
1) Sono state temporaneamente sospese le IPO.
2) Le due borse di Shanghai e Shenzhen, e la China Securities Depository and Clearing Co. Ltd hanno annunciato la riduzione dei costi di negoziazione sui mercati A-share.
3) La China Securities Regulatory Commission ha stabilito che soci, amministratori o dirigenti d’azienda che detengono quote azionarie superiori al 5 per cento non possono vendere i loro asset per i prossimi sei mesi.
4) I 21 principali broker della Cina si sono impegnati a investire almeno 120 miliardi di RMB in Exchange-traded fund (ETF, fondi d’investimento) di blue chip (cioè le azioni di società a più alta capitalizzazione). Tali broker si sono inoltre impegnati a non vendere le azioni.
5) La People’s Bank of China si è impegnata a dare liquidità alle istituzioni finanziarie che hanno sostenuto il margin financing, cioè la pratica diffusa tra i piccoli azionisti di prendere soldi a prestito per investire oltre le proprie disponibilità patrimoniali.
Infine, al di là dell’azione del governo, ha avuto luogo la sospensione di oltre 1.400 titoli, determinata dalle stesse aziende per il timore di cali eccessivi del loro valore.
Il mercato si è ripreso (oggi, Shanghai è sopra il 2 per cento mentre scriviamo).
Guardando alle misure messe in atto da Pechino, l’impressione è che il governo stia compiendo una sterzata per terminare la volubile e volatile fase del mercato degli gnomi e affidarlo a investitori più grandi, istituzionali e affidabili. Nel frattempo si fa carico dei costi di questa transizione.
Insomma, si assume il rischio e ri-centralizza i processi.
Il bello è che, nonostante i ricorrenti appelli alla Cina affinché si comporti da evoluta economia deregolata, del “fattore P” si avvantaggiano anche gli apologeti (interessati) del libero mercato. Nell’ultimo mese, i fondi d’investimento Usa hanno per esempio continuato a pompare fondi nel mercato cinese anche durante la correzione al ribasso. L’ha osservato l’agenzia EPFR Global di Boston, secondo cui l’aumento dei valori azionari che si è verificato nell’anno precedente al 12 giugno è così grande che oltre l’80 per cento degli Exchange-traded fund focalizzati sulla Cina chiuderà comunque l’anno in attivo.
E secondo secondo Fidelity Worldwide Investment, un’agenzia di gestione fondi che opera in Cina, l’ottimismo sul medio-lungo periodo dipende proprio dal fatto che “il sistema finanziario cinese continua a essere sostenuto dal governo, che dispone di più di 3.000 miliardi di dollari di asset da destinare alle aree problematiche”.
Insomma, l’interventismo politico “puzza”, ma in caso ci tappiamo il naso.