di Angelo Boccato
Quando pensiamo ai rapimenti in teatri di guerra, questi finiscono per scivolare sulla nostra pelle, specie quando lontani e non ben narrati e descritti nella maggioranza dei nostri media.
Lo scorso anno, mentre scorrevo come faccio abitualmente i titoli del fattoquotidiano.it lessi di un tecnico italiano rapito in Libia e ne rimasi colpito, in quanto segno di uno scenario di Guerra e caos cosi vicino a noi geograficamente, ma estremamente lontano sotto altri punti di vista.
In seguito, quando scopri la identita del tecnico rapito la prospettiva muto radicalmente; si trattava di Marco Vallisa, uno dei piu cari amici di mio fratello Andrea.
Nel corso dei quattro mesi della sua prigionia, feci in modo di mantenermi aggiornato sia tramite I media nazionali e locali che attraverso i contatti familiari.
Qualche tempo fa, ho avuto occasione di fare una lunga conversazione con Marco Vallisa sui temi della sua prigionia.
Marco Vallisa, 54 anni, di Roveleto di Cadeo, in provincia di Piacenza stava lavorando per una ditta modenese, Piacentini Costruzione a Zuara, citta portuale che rappresenta la maggiore base operativa degli scafisti in Libia.
Marco venne rapito insieme a due colleghi a Zuara, un cittadino bosniaco, Petar Matic e uno macedone, Emilio Gafuri il 5 luglio 2014; in seguito, come spiega lo stesso Vallisa, dopo due giorni di accertamenti, volti ad accertare i potenziali margini di profitto e trattativa per i tre prigionieri, Matic e Gafuri vennero liberati.
L’assenza di una Ambasciata italiana a Tripoli e del personale diplomatico di riferimento complicava fortemente lo scenario di potenziali aperture di trattative.
Vallisa descrive i suoi rapitori come trafficanti e criminali comuni, mentre in seguito al suo rapimento venne ‘venduto’ a gruppi integralisti di sedicente o effettiva affiliazione all’IS.
In quel periodo, lui ebbe occasione di vedere filmati connessi a tale propaganda, oltre che di vero e proprio addestramento, filmati provenienti prevalentemente da Iraq e Siria.
Tali filmati gli venivano poi mostrati dai sequestratori, fortemente inorgogliti, in giornate che scandivano tra preghiere e propaganda.
Dopo il passaggio e il connesso trasferimento a Tripoli, Marco racconta di costanti e progressivi passaggi a vari gruppi armati, composti da 5-6 persone, con scarsa connessione gli uni con gli altri.
La forza di questi gruppi di militanti molto spesso la si vede nel radicamento territoriale, nel sostegno che ricevono all’interno della popolazione, un sostegno chiaramente molto legato all’intervento occidentale nel 2011 contro il regime di Muhammar Gheddafi.
Gheddafi, al fine di consolidare il suo potere assoluto nel Paese aveva provveduto in modo affine agli altri rais nordafricani, come Mubarak, Boutleflika e Ben Ali a reprimere brutalmente e imprigionare estremisti religiosi nell’area; questi, in seguito al crollo del suo regime hanno poi arricchito le fila di tali gruppi, processo che continuano a fare.
Un elemento che Vallisa indica e quello di concentrarsi non tanto sui gruppi di estremisti sul terreno, né in Libia, né tantomeno altrove, ma molto di piu su chi tesse I fili e chi li ha tessuti.
Il riferimento alla cabina di regia nel corso della nostra conversazione mi induce ad aprire una riflessione addizionale su una intervista che ho avuto occasione di fare nel corso dello scorso anno.
A Londra ho avuto occasione di intervistare Maryam Al-Khawaja per Equal Times, attivista di cittadinanza bahrainiana-danese che incontrai precedentemente durante il festival di Internazionale a Ferrara nel 2012.
Maryam Al-Khawaja nel corso della nostra intervista, mi spiegò come nel caso del Bahrain, a un clima settario, di odio ed estremismo sia stato non solo permesso di diffondersi, ma abbia addiritura visto forme di tutela da parte del governo del Paese e come membri dell’ esercito e dei servizi segreti si siano uniti ai ranghi dell’IS.
Un clima simile si e diffuso fortemente anche in Libia, come lo scenario attuale lascia ben intendere e si tratta di un fattore che non si puo certo contrastare con mezzi militari, vista l’intensa macchina propagandistica, ben sviluppata attraverso i social media.
L’inferno per Marco Vallisa e la sua famiglia si e concluso con la sua liberazione nel novembre 2014, pur trattandosi di una esperienza che ha lasciato certamente un segno indelebile.
Vallisa ha avuto occasione di raccontare la sua esperienza in eventi pubblici, come all’Istituto Agrario Raineri Marcora di Piacenza indicando i suoi rapitori come “le vere vittime”.
La Libia resta tutt’ora caos aperto, vicino e lontano e molto probabilmente sopratutto in Italia, visto gli eventi storici, lontani come il colonialismo giolittiano-fascista e vicini come l’intervento del 2011, la grande responsabilita sarebbe cercare di comprendere il quadro attuale, anche per comprendere gli sviluppi futuri.