di Flavia Zarba, IRPI
Quanti tombaroli, trafficanti, faccendieri, collezionisti, vediamo in galera per il commercio illecito compiuto? In 30 anni si contano sulle dita di due mani.
Non si parla di altro ormai che di come preservare il patrimonio culturale, non solo dal deterioramento ma, soprattutto, dalla distruzione, sottrazione, esportazione (anche on line) e importazione illegale di beni culturali che costituiscono, oggigiorno, le principali cause della dispersione del patrimonio culturale globale. Il traffico illecito dei beni culturali, in costante espansione nella comunità internazionale, è uno dei mercati più lucrativi al mondo. La connivenza di molte istituzioni è stata ormai provata in diversi casi. Ne sono esempio il Getty Museum di Los Angeles e il Metropolitan Art Museum di New York che hanno espressamente ammesso di aver comprato molte delle opere esposte dal mercato nero di antichità. Si pensi alla Venere di Morgantina, scavata di frodo vicino Enna e venduta al Getty per 18 milioni di dollari o al Trapezophoros, scavato e saccheggiato presso Foggia e comprato sempre dallo stesso museo per 5,5 milioni di dollari.
Che tipo di normativa è prevista in Italia?
Nel nostro territorio vige una disciplina legislativa molto ferrea in materia di circolazione dei beni culturali in ambito internazionale che ha trovato una significativa regolamentazione nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio del 2004. Si tratta di una normativa conforme ai vincoli fissati in ambito comunitario e agli impegni assunti mediante stipula e ratifica di convenzioni internazionali.
E in Europa?
Anche a livello europeo il Legislatore è stato particolarmente attento, prevedendo, all’art. 83 del Tfue che ‟l’Unione europea può adottare direttive contenenti norme minime di diritto penale”. Le direttive principali riguardano la restituzione dei beni culturali classificati come patrimonio artistico, storico e archeologico nazionale. Pertanto gli stati membri, nel recepire le direttive, devono attivarsi in tal senso conformemente alla legislazione o alle procedure amministrative nazionali.
Di quali beni si tratta?
L’articolo 36 del TFUE prevede che i beni “facciano parte integrante di collezioni pubbliche figuranti negli inventari di musei, di archivi e di fondi di conservazione delle biblioteche ovvero di inventari di istituzioni ecclesiastiche”. In altri termini, quando i beni culturali hanno lasciato il territorio di un paese dell’Ue in maniera illegale, e cioè in violazione della legislazione nazionale vigente, ovvero in violazione delle condizioni di un’autorizzazione temporanea rilasciata, devono essere rimpatriati, sia nel caso in cui il bene sia stato trasferito all’interno dell’Unione, sia che sia stato prima esportato verso un paese terzo e successivamente importato in un altro membro paese dell’Ue.
Come si arriva a transare sui beni culturali?
Normalmente le transazioni avvengono in Paesi come Regno Unito, Svizzera, Stati Uniti, Russia, Giappone, Cina, Paesi in cui vige una legislazione meno severa o semplicemente più liberale. I beni, illecitamente esportati, una volta dichiarati in dogana, diventano lecitamente commerciabili tramite certificati assai ambigui.
Nel nostro Paese è agevole l’uscita definitiva di beni aventi valore storico o artistico?
Sulla carta no (grazie alla solida normativa esistente) e non dovrebbe esserlo neanche nella prassi perchè il Comando dei Carabinieri per la Tutela del patrimonio culturale, l’Ufficio Antifrode, l’Ufficio controlli Dogane, la Guardia di Finanza, in sinergia con l’Interpol e con le soprintendenze dovrebbero, con i loro potenti mezzi, inibire l’esportazione e l’importazione illecita di beni culturali. Eppure, il traffico illegale di opere d’arte registra numeri consistenti, sfruttando le crepe della normativa.
Chi sono i faccendieri?
Ci sono i “tombaroli”, che effettuano scavi abusivi e trafugano oggetti dai siti archeologici o rinvenendoli in mare agli intermediari. I “corrieri” che trasportano gli oggetti da un luogo all’altro e sempre più spesso oltre confine e poi c’è il personale doganale corrotto che agevola la fuoriuscita illecita dei beni culturali dal territorio dello Stato.
Gli autori devono dunque essere esperti d’arte prima che criminali?
“In Medio Oriente e Africa, i razziatori sono per buona parte gente povera del luogo che saccheggia siti archeologici, musei e depositi per rivendere e sopravvivere. Diversi sono, invece, i ladri professionisti e i contrabbandieri che prendono le opere, le selezionano, le vagliano, ne intuiscono il lucro. La loro competenza non è scientifica, è solo mercantile. Neanche i corrieri che trasportano le opere, nelle città occidentali e nei mercati orientali, hanno perizia tecnica, né serve loro. Discorso diverso, nei nostri Paesi, sono gli storici dell’arte che danno una carta d’identità falsata al manufatto per renderlo vendibile. La loro competenza è precisa e puntuale, così come i grandi mercanti, le case d’aste, le vetrine online, le collezioni universitarie che acquistano o rivendono ad alto prezzo le antichità (oltre 2 miliardi di dollari il fatturato annuo di questo commercio, secondo l’Unesco).” Ha raccontato ad Huffington Post Luca Nannipieri saggista e giornalista, membro della Fondazione Magna Carta e autore di un’inchiesta sul contrabbando internazionale di opere d’arte.
Come possono essere contrastati tali crimini?
“Occorre contrastare la sottrazione e la commercializzazione illecita di beni culturali con azioni di prevenzione, di contrasto e di recupero. Le azioni legislative, investigative, processuali e militari non possono essere ricondotte alla legge nazionale. È necessario procedere ad una legislazione paritaria, contigua tra gli Stati membri, affinché ciò che è illecito e vietato in Italia non sia tranquillamente lecito in altri Stati”.
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