All the President’s Psychologists

di Marta Clinco

Questa volta nel mirino dell’ennesimo scandalo governativo U.S.A. c’è l’Ordine degli Psicologi americani che, secondo un gruppo di attivisti, ha collaborato segretamente con amministrazione Bush, CIA, United States department of Defense (DoD) e Pentagono in particolare.

Avrebbero collaborato per rafforzare le giustificazioni etiche e legali delle torture cui furono sottoposti prigionieri catturati nella guerra al terrorismo. La denuncia viene da un rapporto del gruppo Sidley Austin LLP, composto da attivisti per i diritti umani e psicologi dissidenti, anche interni alla stessa American Psychological Association (APA), l’associazione nazionale di categoria.

Il documento ottenuto dal New York Times sostiene: “Il cuore della nostra indagine si riferisce all’emissione di linee guida etiche da parte dell’APA che hanno determinato quando gli psicologi avrebbero eticamente potuto partecipare agli interrogatori condotti dalle forze d’intelligence”.

Costruito anche sulla base di messaggi email inediti, il dossier di 542 pagine stilato dall’ex-assistente procuratore americano David Hoffman, oltre a costituire la documentazione più approfondita e accurata tra quella esistente, è il primo a stabilire un legame chiaro tra l’APA e gli interrogatori sotto tortura dei detenuti nelle basi Usa, con particolare riferimento ai siti di Guantanamo Bay e Abu Ghraib in Iraq.

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Quella appena pubblicata è solo l’ultima di una serie indagini e documenti riguardo il caso. Già a fine 2002 Terrence DeMay, capo dell’ufficio dei servizi medici della CIA, aveva iniziato a esprimere perplessità per via della partecipazione al programma di interrogatori di James Mitchell , lo psicologo e istruttore del programma SERE (sopravvivenza, evasione, soccorso e fuga) dell’Aeronautica Militare, in cui il personale militare USA viene sottoposto a torture simulate in modo da essere addestrati a non rivelare informazioni in caso di cattura. Altre preoccupazioni etiche erano state sollevate da Morgan – psichiatra e contractor della CIA che aveva studiato il personale militare a seguito della formazione sulla simulazione della tortura prevista dal SERE – dopo aver condotto una ricerca che dimostrava quanto le tecniche del programma di Mitchell utilizzate sui militari non sortissero in realtà alcun effetto nella raccolta di informazioni accurate e veritiere.

L’insorgere di altre rimostranze sempre all’interno della CIA era culminato nella convocazione di una riunione riservata nel luglio 2004 presso l’APA: circa 15 scienziati del comportamento che avevano lavorato per le agenzie di sicurezza nazionali stabilivano in quell’occasione la costituzione di una task force che studiasse l’etica di coinvolgimento degli psicologi negli interrogatori di tortura nella cooperazione tra l’APA e l’intelligence. Pensata almeno all’inizio come organo permanente di monitoraggio e controllo, era stata presto riempita da APA e autorità governative di addetti alla sicurezza nazionale, di certo poco imparziali e inadatti al compito prefissato. A seguito di un meeting di soli 3 giorni, il direttore etico dell’APA aveva stilato un rapporto in cui si concludeva sostanzialmente che gli psicologi potevano eticamente prendere parte agli interrogatori, e si definivano inoltre le tanto discusse linee guida etiche riguardo la loro partecipazione. Meno di una settimana dopo, in una riunione d’emergenza, il rapporto veniva approvato e pubblicato come statuto dell’APA stessa.

In un report successivo pubblicato nel 2008 si parla addirittura di autorizzazione a “tecniche di interrogatorio rafforzate”. Il documento si apre con una dichiarazione a dir poco controversa e dissonante del Generale David Petraeus. L’uomo della U.S. Army – un passato da Capo delle Forze Armate Statunitensi in Iraq sotto l’amministrazione Bush e da direttore della CIA per volere di Obama – inaugura così il sommario: “Ciò che ci distingue dai nostri nemici in questa lotta… è come ci comportiamo. In tutto ciò che facciamo, dobbiamo osservare le norme e valori che indicano che trattiamo combattenti e detenuti con dignità e rispetto. Siamo guerrieri, ma siamo anche tutti esseri umani”.

Altre scomode rivelazioni avrebbero travolto di nuovo la CIA solo pochi mesi fa, a inizio dicembre 2014, in seguito alla diffusione di un rapporto della Senate Intelligence Committee, la commissione del Senato che si occupa di sovrintendere e monitorare l’attività d’intelligence americana. Nelle oltre cinquecento pagine rese note – che costituiscono in realtà solo una minima parte dell’intero rapporto, basato anche su testimonianze raccolte tra i detenuti – si denunciava l’uso da parte della CIA della tortura in diversi centri di detenzione, con particolare attenzione ai siti in Afghanistan: privazione del sonno, alimentazione rettale forzata, waterboarding, abusi sessuali.

L ’ultimo report di cui siamo entrati in possesso a inizio luglio, firmato da Hoffman, è stato preceduto in realtà da un’altra pubblicazione più breve, redatta da diversi psicologi dissidenti anche interni all’APA, tra cui figurano anche diversi professori di psicologia e psicologia etica provenienti da Harvard, New York University e UNHCR. Leggiamo nella prefazione: “La complicità dell’APA nel programma di tortura della CIA, che ha consistito nel permettere agli psicologi di amministrare e calibrare i danni consentiti e alcuni metodi di tortura, mina i principi etici fondamentali della professione”. I risultati cui giungevano gli studiosi lo scorso aprile sono in definitiva estremamente simili alle ultime conclusioni pubblicate pochi giorni fa da Hoffman, con il quale peraltro tali psicologi hanno collaborato nella raccolta delle informazioni e nella stesura del documento finale.

Tra le conclusioni dell’ultimo rapporto, in riferimento ai fatti intercorsi tra 2001 e 2005, si legge: “L’APA si coordinò segretamente con funzionari della CIA, della Casa Bianca e del Pentagono per definire giustificazioni etiche degli interrogatori sulla base della sicurezza nazionale: queste si allineavano con le linee guida legali che autorizzavano le torture da parte della CIA”.

La tesi sostenuta afferma inoltre che gli sforzi per mantenere tali psicologi coinvolti nel programma di interrogatori coincisero con quelli dell’amministrazione Bush di salvare il programma dopo la devastante pubblicazione delle foto di abusi nel carcere di Abu Ghraib del 2004.Guantanamo_Bay_3372423b

Il coinvolgimento degli psicologi è ormai appurato. È rilevante e di fondamentale importanza perché a sua volta ha consentito al Dipartimento della Giustizia la difesa di un programma di torture definito legale, che non costituiva affatto tortura, dal momento che “professionisti della salute” supervisionavano le attività degli agenti dell’intelligence. Per tali professionisi – oltre alle accuse per violazioni del codice etico e deontologico – l rischio è anche quello di procedimenti penali nei confronti dei singoli individui per il coinvolgimento diretto nelle torture.

Le conclusioni tratte sono chiare: alcuni nel vertice dell’associazione degli psicologi si sono prodigati per far sì che le norme etiche fossero in linea con le politiche di interrogatorio del Dipartimento della Difesa.

Ma a questo si aggiunge il fatto che – come già accennato sopra – molti psicologi hanno aiutato direttamente la CIA nell’ambito del programma di torture, tutelandola dalle critiche crescenti anche all’interno della CIA stessa: gli psicologi hanno collaborato in modo talmente stretto da aiutare a definire, affinare e attuare le tecniche di tortura – posizioni comuni di stress, uso di cani militari contro i prigionieri, privazione del sonno, waterboarding. Gli psicologi andavano dunque ben al di là di semplici “torture psicologiche”.

Il DoD e la CIA avrebbero dunque lavorato hand-in-hand con la leadership dell’APA, con l’obiettivo di dettare e far passare un documento politico – quello redatto nel 2005 – volto a giustificare e proteggere gli psicologi che hanno progettato e supervisionato gli interrogatori-tortura, “nonostante le leggi e l’etica professionale siano volti a prevenire esattamente questo tipo di comportamenti”. Ma – come peraltro affermavano i vertici dell’APA – “gli psicologi lavoravano per gli interrogatori, e per questo non avevano responsabilità per la salute dei detenuti”.L’unica risposta alle accuse di Hoffman giunta dall’APA è stata un comunicato di scuse. Alcuni psicologi membri hanno rassegnato le proprie dimissioni.

 

Nelle considerazioni finali Hoffman parla chiaro, e oltre alle accuse di tortura si sofferma anche sulle strette relazioni che sembrano intercorrere tra alcuni funzionari dell’a
ssociazione degli psicologi e alcuni funzionari del Pentagono: “Le prove confermano che alcuni funzionari dell’APA sono collusi con i funzionari del Dipartimento della Difesa o che, per lo meno, hanno adottato e mantenuto all’interno dell’associazione politiche etiche che non erano più restrittive delle linee guida che i funzionari chiave del Pentagono avevano voluto. L’APA ha scelto la sua politica etica con l’obiettivo di aiutare il DoD, gestendo le sue public relations, e massimizzando la crescita della professione”. Mentre l’operato di CIA e APA pare a dir poco controverso e discutibile, le prove fornite dall’ex procuratore americano sembrano invece lasciare poco spazio a dubbi e incertezze.

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I fatti di cui maggiormente si parla nel rapporto accadevano subito dopo l’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre 2001 – periodo in cui volgeva quasi al termine quel primo anno di mandato di G. W. Bush. Erano passati pochi mesi dall’attentato, ma molte cose negli Stati Uniti erano già cambiate. Si era innescato ufficialmente quel conflitto senza fronti e dai contorni labili che avrebbe preso poi il nome di War on Terror: la guerra al terrorismo iniziava nel caos generalizzato e nel panico totale solo 9 giorni dopo, il 20 settembre 2001.

Dietro l’etichetta della lotta al terrorismo – tra i diversi sentimenti di rabbia, rinnovato patriottismo e unità nazionale nei confronti del nemico – di lì a poco sarebbero state giustificate diverse decisioni di governo.

La prima minaccia concreta agli Stati Uniti dopo la caduta dell’Unione Sovietica aveva fornito all’amministrazione un’ampia gamma di opportunità strategiche: la possibilità di individuare potenziali obiettivi in diversi Paesi, di consolidare la presenza militare americana sullo scacchiere internazionale, di aumentare a dismisura le spese per la Difesa. Il Congresso stanziò in quel periodo 40 miliardi di dollari in nome della cosiddetta “emergenza terrorismo”, con altri 20 miliardi di dollari aggiuntivi per l’industria del trasporto aereo. Oltre agli sforzi militari all’estero – ricordiamo le campagne disastrose in Afghanistan e Iraq, ma anche le numerose operazioni condotte in Africa e Asia in quello stesso periodo – dopo l’11 settembre Bush aveva intensificato anche gli sforzi interni per prevenire futuri attentati.

Una delle grandi novità era stata la creazione della United States Department of Homeland Security, la nuova agenzia di sicurezza che avrebbe avuto il compito di guidare e coordinare le attività anti-terroristiche federali.

Il famoso Patriot Act veniva proposto il 23 ottobre 2001, per poi essere approvato in tutta fretta da Camera e Senato nei due giorni successivi e firmato in via definitiva il 26 ottobre. Di fatto, con l’entrata in vigore della legge, venivano rimosse alcune restrizioni legali per quanto riguarda la condivisione delle informazioni tra agenzie federali e servizi di intelligence, in modo da permettere investigazioni più accurate su presunti terroristi.

Prevedeva addirittura un invasivo programma di tracciamento e di monitoraggio finanziario, sospeso dopo esser stato rivelato dal New York Times perché utilizzato anche a fini di spionaggio. Era molto chiaro comunque che in nome di questa nuova guerra al terrore i cittadini americani avrebbero dovuto essere disposti a rinunciare a una larga fetta dei propri diritti civili e delle tutele legate alla privacy – in parte, anche alla libertà d’espressione. E così sono state intensificate anche le attività di sorveglianza di massa a livello globale, svolte sempre in nome della “sicurezza mondiale”.
Per tutte queste ragioni, è importante inquadrare i fatti di cui si parla nell’ultimo rapporto su CIA e APA nel panorama di quella stessa amministrazione Bush e a cavallo di quella rinnovata dopo le presidenziali del 2004. Tutti ricordano i fatti riguardo l’utilizzo della tortura ad Abu Ghraib in Iraq, fatti venuti alla luce nel 2004 grazie alla pubblicazione di immagini e video che documentavano le atrocità inferte ai detenuti da funzionari e soldati americani all’interno della prigione governativa. Fatti di cui tuttavia già si vociferava da tempo, e dalle cui accuse l’amministrazione Bush aveva tentato maldestre difese. Solo qualche mese prima infatti, nel 2003, Bush pronunciava queste parole in occasione dell’evento “Ask President Bush”, nel Michigan: “Perché abbiamo agito, ora le camere di tortura sono chiuse, le camere degli stupri non esistono più, le fosse comuni non sono più una possibilità in Iraq”. Rumsfeld, all’epoca Segretario della Difesa, cercava disperate vie d’uscita nelle origini etimologiche e nelle differenze semantiche tra le parole “tortura” e “abuso”.

Molto nota è la vicenda del pakistano Majid Shoukat Khan, l’unico residente legale degli Stati Uniti attualmente detenuto a Guantanamo Bay, catturato nel 2003 dalle autorità pakistane dopo aver fatto ritorno nel Paese natìo perché sospettato di attività terroristica e subito consegnato nelle mani della CIA. Prima di essere trasferito, ha trascorso diverso tempo in uno dei black site dell’intelligence in Afghanistan, dove è stato sottoposto a interrogatori con torture terribili: “Gli interrogatori puzzavano di alcol. Minacciavano di picchiarmi con martelli, mazze da baseball, bastoni, cinture di pelle. Versavano sempre acqua gelata sui miei genitali. Mi hanno registrato in video più volte, nudo, mentre ripetutamente toccavano le mie parti intime. A volte mi appendevano nudo a delle aste di ferro, altre mi costringevano a tenere la testa nell’acqua ghiacciata, un limbo straziante tra il soffocamento e lo svenimento. Ho subito anche alimentazione rettale forzata – era quello che facevano col mio lunch tray” racconta Khan, in una delle parti più dure di alcuni documenti pubblicati nel 2005, all’epoca dello scandalo di Abu Ghraib, riguardo i metodi di tortura adottati nei siti CIA. “A volte ci facevano attaccare da cani addestrati per farlo. Ci insultavano, ci umiliavano. Eravamo tenuti isolati dagli altri prigionieri, nel buio più totale, e quando capitava di uscire dalle celle venivamo bendati. Per privarci del sonno, le luci della cella erano perennemente accese, e gli altoparlanti suonavano sempre musica ad alto volume: ricordo i KISS, gruppi rock e rap americani”.

Conclude: “Speravo che mi uccidessero”. Di storie come quella di Khan sono pieni i rapporti degli anni seguenti. Mohamedou Ould Slahi – un altro detenuto di Guantanamo passato per i centri afghani – è riuscito anche a pubblicare un diario in cui racconta le dure esperienze della tortura e della prigionia.

Dopo l’attacco alle Twin Towers dell’11 settembre molte cose negli Stati Uniti sono cambiate.
Resta il fatto che, a fronte di numerosi rapporti e denunce, la tortura negli USA rimane un metodo di interrogatorio ampiamente praticato – tra l’altro, non solo nei black sites della CIA, riguardo i quali comunque non vi è ancora alcuna contabilità dei nomi e nessuna informazione nota riguardo il destino cui vanno incontro i prigionieri che tra quelle mura vengono detenuti. Come si leggeva nel rapporto sull’operato della CIA in Afghanistan dello scorso anno, questo tipo di condotta continua a non dimostrarsi utile all’intelligence. E non dovrebbe stupire più di tanto: da tempo è noto ormai che tortura psicologica e fisica sono completamente inutili a fini di interrogatorio.