Tentativi di restaurazione e irrisolte questioni sociali di fronte alla sfida del terrorismo.
di Clara Capelli
Pubblicato da Effimera
Solo pochi mesi fa l’esperienza tunisina veniva salutata come l’unico esempio di successo della cosiddetta primavera araba, un segnale di speranza per la “democrazia” della regione rispetto alle derive autoritarie dell’Egitto e ai conflitti che insanguinano Libia, Siria e Yemen. Poi ci sono stati gli attacchi al museo del Bardo di Tunisi il 18 marzo e in un resort di Port El Kantaoui (Sousse), sulla costa orientale, il 26 giugno. Ed ecco che la violenza (21 e 38 morti rispettivamente) ha portato alla luce una serie di problemi che non hanno avuto né letture né risposte adeguate, sia dentro che fuori i confini della Tunisia. Soprattutto all’estero, essi sono stati largamente ignorati, oscurati da una narrazione che si concentrava in buona sostanza sulle mere dinamiche elettorali e sul ruolo politico dell’Islam, spesso liquidando il tutto attraverso le lenti dello “scontro di civiltà” e non della competizione per il potere.
La parola chiave che riassume gran parte del dibattito è sicurezza. Proteggersi dalla “minaccia del terrorismo” è percepita da molti come una priorità.
Parte della popolazione tunisina è preoccupata da ciò che percepisce essere un generale deterioramento delle condizioni di sicurezza, tanto da lasciarsi spesso andare ad affermazioni di rimpianto per il regime di Ben Ali. Chi vive di turismo, attività di grande peso e importanza per l’economia tunisina, ne lamenta il crollo, considerati i luoghi degli attacchi e le vittime, quasi tutte turisti stranieri. I politici, impegnati in lotte ed equilibrismi di potere, si trovano ad affrontare sfide socio-economiche complesse e le pressanti esigenze della popolazione. Infine, la repressione dell’attività terroristica e il potenziamento dell’apparato di sicurezza nella regione sono elementi importanti dell’agenda geopolitica internazionale.
Come discusso in un articolo pubblicato in questa sede a commento dell’attacco del Bardo, già a marzo la reazione del governo era stata quella di insistere su ordine e stabilità. L’intento era di rassicurare la popolazione intimorita ma soprattutto, e deliberatamente, di evitare che la questione delle cause che inducono i giovani tunisini a intraprendere un tale percorso di violenza venisse sollevata. Ma dopo lo shock dell’attentato di Sousse, le misure volte a innalzare il livello di “sicurezza” in Tunisia sono ulteriormente aumentate. All’indomani della strage, il governo – guidato da Nidaa Tounes, formazione che raccoglie al suo interno diversi politici dell’epoca di Bourguiba e Ben Ali, in coalizione con Ennahda, partito dell’Islam politico, gli ultraliberali Afek Tounes e Union Patriotique Libre – ha annunciato, tra le varie decisioni, la chiusura di circa 80 moschee, lo stato di zone militari chiuse per le aree di montagna dove si nascondono i terroristi, la dotazione di armi alla polizia turistica all’interno di hotel e spiagge, la revisione della legge dell’associazioni e il possibile scioglimento di partiti e associazioni “che non rispettano la costituzione tunisina”. Da diversi mesi, inoltre, i giovani sotto i 35 anni sono oggetto di arbitrari divieti a lasciare la Tunisia, specialmente se diretti verso Algeria, Libia, Marocco, Serbia e Turchia, considerate le mete di addestramento per aspiranti combattenti in Siria e Iraq o in casa propria.
A ciò si aggiungono altre misure piuttosto controverse, con un governo che nonostante le rivalità diffuse (tra Nidaa Tounes ed Ennahda, ma anche internamente agli stessi partiti), si trova unito nell’ansia di mantenere il consenso popolare. Un muro di sabbia di 168 chilometri verrà costruito al confine con la Libia, sempre con l’intento di impedire le infiltrazioni terroristiche. Tuttavia, non è chiaro se quest’opera – la cui realizzazione sarà comunque impegnativa e costosa – riuscirà a sortire i risultati auspicati, soprattutto considerata la porosità del confine tra Tunisia e Libia, una zona tra l’altro nota per traffici di contrabbando che un muro di sabbia difficilmente potrà ostacolare in modo significativo.
Già dopo la tragedia del Bardo, la Tunisia ha cercato sostegno diplomatico negli Stati Uniti con una visita del presidente Essebsi alla Casa Bianca nel maggio di quest’anno. In seguito, il 10 luglio, il Paese ha ottenuto lo status di Major non-NATO Ally (MNNA) – un’affiliazione condivisa con Egitto e Marocco-, cosa che consentirà l’accesso ad aiuti militari, specialmente in materia di anti-terrorismo.
Infine, il 4 luglio è stato introdotto lo stato di emergenza per 30 giorni, poi esteso per altri due mesi il 31 luglio in ragione della “persistenza della minaccia terrorista” che renderebbe necessario concedere poteri speciali alle forze dell’ordine, come ad esempio vietare scioperi e manifestazioni che possano essere “causa di instabilità” o avere ampi margini di controllo sulla stampa.
Nonostante la diffusa preoccupazione per il livello di sicurezza e le sorti economiche del Paese, gran parte della società civile ha aspramente criticato queste derive securitarie, denunciandone i numerosi aspetti di arbitrarietà che rischiano di rendere la lotta al terrorismo un pretesto per reprimere il dissenso. Il pugno di ferro per riprendere un saldo controllo sull’ordine interno verrebbe così giustificato dalla necessità di intraprendere una crociata contro una minaccia terrorista da estirpare a ogni costo.
La violenza forze dell’ordine è cosa tristemente nota in Tunisia, come emerge anche da analisi e articoli di giornale apparsi negli ultimi anni, oltre che dall’attività dell’Instance de Verité et Dignité (IVD), la commissione incaricata di documentare gli abusi commessi all’epoca dei presidenti Bourguiba e Ben Ali ai danni di comuni cittadini, politici o simpatizzanti di sinistra oppure islamisti, e così via. Arresti senza solidi motivi legali e torture sono pratiche molto spesso taciute dai racconti dei tunisini, ma ben presenti nell’esperienza e nella memoria, legate a quelle zone grigie che il quadro legale lasciava alle forze dell’ordine in virtù della necessità di mantenere la stabilità interna (e il controllo sul potere).
La stessa legge anti-terrorismo del 2003 andava proprio in quella direzione, inasprendo le misure securitarie a fini meramente repressivi. L’apparato di sicurezza tunisino è di fatto in prevalenza addestrato per il mantenimento dell’ordine interno, non per attività di contro-terrorismo (sia di prevenzione degli attacchi, sia di confronto armato con i terroristi), come ha bene illustrato un recente rapporto dell’International Crisis Group. Per questo lo spettro di un ritorno all’ancien régime inquieta molti cittadini e rappresentanti della società civile, anche alla luce della nuova legislazione anti-terrorismo, approvata il 24 luglio, il giorno prima della Festa della Repubblica, con 174 voti a favore, 10 astensioni e zero contrari (23 parlamentari erano invece assenti).
Human Rights Watch ha criticato più volte questo nuovo testo di legge, giudicandolo lesivo dei più importanti diritti umani. Innanzitutto, oltre a una definizione molto vaga di terrorismo che spiana la strada a interpretazioni strumentali, viene sancita la pena di morte per il crimine di terrorismo (la pena di morte è presente nel codice penale tunisino, ma non viene applicata dal 1991), cosa che nemmeno la legge del 2003 prevedeva. Inoltre, vengono introdotte procedure speciali di investigazione, intercettazione e infiltrazione, è garantito l’anonimato per testimoni e informatori e la custodia cautelare è fissata estesa da 6 a 15 giorni, senza possibilità di consultare un avvocato.
Non solo la strategia seguita dalle autorità tunisine crea e allarga spazi di coercizione che rischiano di facilitare soprusi e repressioni, ma, cosa altrettanto fondamentale, non riuscirà a rispondere adeguatamente alla sfida del terrorismo.
Non per mancanza di mezzi securitari o di addestramento, ma perché si concentra unicamente sul piano bellico, militare senza porsi alcun interrogativo sulle cause che portano i tunisini, prevalentemente giovani, a scegliere quella strada.
Seifeddine Rezgui, il ragazzo che ha compiuto il massacro del Bardo, aveva 23 anni, studiava ingegneria e per un certo periodo ha sognato di diventare un ballerino di breakdance con il nome d’arte di Sisco. Stando ai racconti dei suoi compaesani di Gaafour – governatorato di Siliana, zona remota e povera della Tunisia – non era neanche un praticamente particolarmente fervente e meticoloso, solo recentemente aveva iniziato a seguire un corso di studi islamici. Yassine Laabidi, 26 anni, viveva a Omrane, quartiere popolare di Tunisi. Aveva abbandonato l’università per lavorare, si era trovato un impiego in un’agenzia di viaggi. A dicembre si era assentato per un mese, probabilmente – si è poi scoperto – per completare il suo addestramento in Libia. Yassine è uno dei due responsabili dell’attacco al Bardo, insieme a Hatem Khachnaoui, 20 anni, originario di un’altra regione poverissima, Kassrine.
Conoscere il percorso umano e sociale di questi ragazzi è fondamentale per comprendere quali situazioni di frustrazione che conducono a compiere tali atti. Così come è importante capire cosa induca migliaia di tunisini e tunisine (oltre 5000 secondo le più recenti stime), anche provenienti da famiglie benestanti, a partire per la Siria e l’Iraq per unirsi alle fila dello Stato Islamico o di organizzazioni simili. Interrogarsi su tali questioni significherebbe trovare la chiave delle sofferenze di un Paese che viene da decenni e decenni di dittatura e repressione, dove gli spazi politici e sociali devono essere presi e ridefiniti con fatica; un Paese che per moltissimi anni ha fondato il suo sviluppo su un turismo di massa concentrato in poche aree della costa e sull’attrazione di investimenti stranieri: attività in buona sostanza fondate sul basso costo della manodopera – magari la stessa manodopera delle regioni di Seifeddine, Hatem o del tristemente celebre Mohammed Bouazizi di Sidi Bouzid -, che non hanno redistribuito alcuna risorsa al territorio per permettere adeguate politiche di sviluppo, acuendo le disuguaglianze geografiche e di reddito.
La Tunisia ha dimostrato che il successo democratico non si risolve in una serie di momenti elettorali. Una transizione è per sua stessa natura dolorosa e complicata, ma senza lasciare il palcoscenico a catastrofismi e giudizi negativi, magari velati di nostalgia per il recente passato autoritario, è quanto mai fondamentale riprendere i fili del passato e sciogliere i nodi di tutta una serie di strategie politiche, economiche e sociali che non sconfiggeranno mai il terrorismo, perché hanno essere stesse contribuito a rendere fertile il terreno che ha generato le sofferenze di cui questo è espressione.
Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale e non dell’istituzione presso cui lavora.