Aylan

Il suo nome è Aylan. Ed è, deve essere, un nome collettivo, è il nome di tutti i bambini e non solo, di tutte le persone, gli umani che muoiono così. O che muoiono ogni giorno restando vivi, ma privati di vita degna e di sogni.

di Angelo Miotto e Christian Elia

Andrebbe pronunciato, quel nome, anche a bassa voce davanti agli schermi dei nostri device tecnologici, dove la sua foto si clona ininterrottamente mentre su altre si sceglie di non volerla postare.
Quella foto è una foto tragica e come altre, ma la violenza di questa morte trova nello scatto qualcosa di più per quella posizione, la spiaggia, le onde.
Come sia possibile organizzare eventi complessi da decine di milioni di visitatori e non riuscire in decenni a creare un meccanismo di accoglienza o di passaggio gridando a ogni ondata all’emergenza è cosa che lascia sbalorditi. Non è che non se ne capiscano le infime ragioni. Quindi sarebbe giusto oltre che sano che chi amministra Paesi e organizzazioni democratiche la smetta di dire frasi di circostanza, di appellarsi a paroloni sacri che sono svuotati di ogni significato.
Il fallimento è sulla spiaggia, è in mezzo al Mediterraneo, è sui cazzotti che stanno volando a Budapest, nei pennarelli sulle braccia, nell’utilizzo politico dei corpi.

 

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Illustrazione di Enrico Natoli per Q Code Mag

Non vale dire che è colpa nostra, generalizzando fra chi ha potere di scegliere e chi solo quello di indicare un voto, uno solo, per trovarsi scavalcato sempre da entità al di fuori delle regole, che ci obbligano a rispettare. La colpa è l’indifferenza, certo, ma non sarà la condivisione di una foto a renderci migliori. Né di mille, né di milioni di foto. Sono utili per sapere e ricordare, per vedere la realtà, ma il gesto politico – per Charlie, come per altre campagne virali che sorgono anche spontaneamente – non è esserci in rete. Non è solo l’umano sentire pietà e tristezza, disperazione, per un piccolo ucciso così.

La risposta ai corpi sta nei corpi, nelle azioni. Nella capacità di organizzare movimenti di risposta come leggiamo in Austria, in Ungheria anche, negli sperduti paesini della Grecia, nel registro che sta promuovendo Ada Colau a Barcellona per famiglie disposte a ospitare un migrante.

Siamo abbastanza evoluti per ricordare il Novecento, eppure ci piace rimuoverlo per poi evocarne i giorni peggiori, ma lo sdegno deve lasciare il posto alla soluzione.
Come. Quattro caratteri che aprono un interrogativo enorme: come.
L’altermondialismo aveva soluzioni. Si persero solo come massa critica, molte esperienze han continuato a vivere.

C’è bisogno forse di una frattura, forte e forse anche non indolore, dove il segnale deve essere inequivocabile.

C’è bisogno di federarsi trasversalmente fra realtà simili, che condividono metodi e pratiche. Di Riformare i meccanismi, di buttar via le cravatte e i tailleur, di uccidere tradizioni soprassate nel nome delle idee.

Se al posto di questa classe dirigente politica inetta europea avessimo il loro tempo e i loro denari per elaborare strategie troveremmo persone giuste per piani possibili. Loro hanno il tempo, i soldi, una religione basata sulla finanza, non sull’essere umano. La rete non può e non deve essere solo un mezzo di denuncia e di consolazione amara, spesso pessimista di futuro.

La vera proposta sta nel quotidiano, nelle piccole azioni.
Per poter pronunciare quel nome collettivo senza provare vergogna.