di Antonela Riha, da Belgrado
tratto da Osservatorio Balcani e Caucaso
Se l’aveste incontrata in un caffè di Milano, in una via di Parigi o in club di Berlino avreste pensato che il suo viso, luminoso e sorridente, fosse stato creato per la réclame di un costoso prodotto cosmetico. Nel parco davanti alla stazione degli autobus di Belgrado, Mehriban siede su pezzo di cartone adagiato per terra e l’unica cosa che desidera è che le sue quattro sorelle, tre fratelli e sua madre arrivino in Germania.
Là non conosce nessuno ma ha sentito dire che «si sta bene ed è sicuro». Ha 24 anni, le erano rimasti solo due esami per finire la facoltà di Biologia. Quando è scoppiata la guerra tutti i curdi, lei compresa, sono stati costretti a lasciare l’Università di Aleppo. È tornata alla sua città natale Kobane, sul confine con la Turchia che, afferma, un tempo era una bella città ma ora è solo un cumulo di macerie.
«Prima della guerra non c’era differenza tra noi e gli arabi ma da quando è arrivato il Daesh, se sei curdo sei morto» racconta Mehriban in un inglese stentato.
Con i gesti delle mani mi mostra come i miliziani del Daesh, come chiama lo Stato islamico (ISIS), hanno distrutto con le bombe la casa in cui viveva. Ha trascorso con la famiglia un anno in Turchia, lavorava nei campi raccogliendo pomodori e arance per 10 ore al giorno. «In Turchia la gente è ospitale ma il loro governo non ci vuole. Quando dici che vieni dalla Siria non trovi lavoro e gli affitti sono molto cari».
Belgrado città di transito
Per quanto ogni destino sia singolare, la cosa che unisce decine di migliaia di persone provenienti da Siria, Iraq, Afghanistan, Eritrea o Somalia è quella di essere passati negli ultimi mesi attraverso Belgrado. Tutti fuggono da guerre o violenze e cercano aiuto. La scorsa settimana il ministro dell’Interno Nebojša Stefanović ha dichiarato che negli ultimi otto mesi sono entrati in Serbia dalla Macedonia 115.000 rifugiati. Si ritiene però che il numero sia di gran lunga superiore da quello dichiarato dal ministro, perché molti rifugiati non sono stati registrati come richiedenti asilo.
Oltre ai passaggi ufficiali di frontiera i rifugiati arrivano anche attraverso i canali illegali, evitando così le schedature ma anche i lacrimogeni e i manganelli con cui la polizia macedone li ha accolti una decina di giorni fa, con la motivazione di tenere sotto controllo la frontiera.
Solo in 14 hanno ottenuto l’asilo in Serbia.
Nei cinque centri di accoglienza (Miratovac, Sjenica, Tutin, Banja Koviljača e Krnjača) esistenti oggi in Serbia, secondo i dati più recenti ci sono poco meno di un migliaio di persone in attesa dello status di richiedenti asilo. Tutti gli altri sono in transito, passano attraverso Belgrado nel tentativo di raggiungere il prima possibile uno dei paesi ricchi dell’Europa occidentale.
La richiesta di asilo che presentano all’ingresso in Serbia gli serve solo per arrivare in sicurezza e più velocemente in Ungheria e da lì in altri paesi che sono la loro destinazione finale.
Benvenuti in Serbia
I funzionari serbi chiedono aiuto all’Unione europea, annunciano l’apertura di nuovi centri di accoglienza, condannano apertamente il comportamento della vicina Ungheria che con il filo spinato impedisce l’ingresso illegale dalla Serbia.
Persino il premier Aleksandar Vučić, a metà agosto, ha fatto visita ai rifugiati nel parco davanti alla stazione degli autobus di Belgrado e di fronte alle telecamere ha precisato:
«Faremo tutto il possibile per voi, affinché siate sicuri come se foste a casa vostra e siete sempre i benvenuti nel nostro paese» dopodiché ha ricevuto pure i complimenti da Bruxelles.
Con queste parole il premier serbo ha voluto nel frattempo inviare un messaggio ai cittadini estremisti, di estrema destra e xenofobi, convinti che i rifugiati li faranno ammalare di qualche rara malattia o che fra di loro si nasconda qualche combattente dell’ISIS.
I media scrivono anche di questo, ma dato che la maggior parte delle testate è controllata dal governo in essi regna una sorta di empatia e vengono condannati gli incidenti come quello di qualche tempo fa, quando a Belgrado è stato arrestato un poliziotto che ha estorto 2000 euro a due siriani.
Dai reportage dei giornali sappiamo quanto si può guadagnare sulle sofferenza altrui, che siano negozi di alimentari dove i rifugiati pagano cifre triplicate o tassisti che per un viaggio di 200 chilometri fino alla frontiera con l’Ungheria chiedono alcune centinaia di euro a persona.
Il viaggio di Mehriban
La testimonianza di Mehriban ne è la conferma. Dalla Turchia è arrivata in Grecia illegalmente, a bordo di un gommone. «Abbiamo viaggiato quattro ore, in sessanta, su un gommone lungo 10 metri. Ognuno di noi ha pagato 1000 dollari». Non posso crederci, penso che il suo inglese non sia sufficientemente preciso, per varie volte le chiedo conto delle tariffe, perché la sua famiglia è composta da nove persone. Mi guarda seriamente, lentamente inclina la testa e ripete: «Sì, ognuno di noi».
Un suo amico che ha viaggiato sullo stesso gommone mostra sul telefono una fotografia dove siedono stipati uno accanto all’altro con indosso i giubbotti salvagente.
«Tutto ciò che avevamo lo abbiamo dovuto gettare».
«Per poterci stare tutti non ci hanno permesso di portare alcun bagaglio. Ho viaggiato con indosso solo la maglietta, i pantaloni e le scarpe da ginnastica», racconta Mehriban del suo viaggio verso un luogo a lei sconosciuto della Grecia, da dove poi è partita per poter raggiungere l’Europa occidentale.
Solo allora capisco ciò a cui ho prestato attenzione sin dall’inizio: le persone al parco, sedute sui cartoni, sui sacchetti di plastica o, quelli con più soldi, sotto piccole tende come quelle che si vedono sulle spiagge nelle località turistiche, non hanno con sé alcun bagaglio. Alcuni hanno solo uno zainetto o una piccola borsa. E capisco quindi perché serve loro assolutamente tutto, indumenti e scarpe, materiale per l’igiene personale, coperte, pannolini per i bambini e ovviamente cibo. Possono comprarli nei negozi attorno alla stazione ferroviaria o a quella degli autobus dove i commercianti hanno appeso la pubblicità in arabo, ma volentieri e con gratitudine accettano gli aiuti offerti dai cittadini.
Volontari
Milena Milićev vive in Olanda ed è venuta a Belgrado, sua città natale, per le vacanze. Ha deciso di passare il suo compleanno tra i rifugiati e invece di ricevere regali ha preferito donare lei qualcosa. Con le mani piene di sacchetti di frutta, cioccolata, pannolini, fazzolettini umidificati, vestiti e giocattoli si avvicina ad una donna coi bambini.
Non sanno parlare in inglese ma si fanno capire facilmente. Vengono dalla Siria. Alcuni di loro chiedono quanto devono pagare e quando sentono che si tratta di regali la invitano a sedersi con loro. Chiedono se ha delle scarpe, mostrano le calzature di un bambino completamente sfondate e il bambino le dà un foglio di carta con scritto il numero 38. Lei alza le spalle rammaricata, solo le scarpe non ha preso. È difficile pensare e prevedere di cosa hanno esattamente bisogno. I bambini si avventano sulla cioccolata e sulla frutta, sorridono e corrono via, per loro il parco è uno spazio dove giocano e fanno amicizia. Non hanno timore delle persone né danno particolari preoccupazioni ai genitori. Alcuni giovani belgradesi hanno portato loro dei blocchi da disegno e dei pennarelli con cui disegnare fiori, nuvole e la loro famiglia.
Da diversi mesi gruppi di cittadini si sono auto-organizzati e vengono al parco ogni giorno: portano aiuti, fanno spettacoli di magia, organizzano tornei di calcetto.
Un’associazione di tassisti trasporta gratuitamente il materiale al Mikser haus, uno dei luoghi più famosi di Belgrado non distante dal parco, in cui si tengono anche concerti rock, spettacoli di teatro e altri eventi culturali.
Per alcune ore al giorno è stato organizzato anche un supporto medico gratuito. Ogni sabato, gli attivisti del movimento No border innalzano una tenda di fortuna dove in grandi pentoloni cuociono il tè per i rifugiati i quali si concentrano lì attorno e cominciano a ballare tutti insieme. Una scena irreale, che strappa lacrime agli osservatori esterni mentre per i rifugiati, cosa più importante, rappresenta un raro momento di felicità.
Mentre li osserviamo ballare con le mani alzate al cielo, la volontaria Nataša Despotović racconta di come nei quattro mesi passati insieme agli amici di No border per aiutare i rifugiati nel parco abbia già imparato un po’ di arabo. «Ad un certo punto qui c’erano 26 nazionalità diverse. All’inizio abbiamo avuto abbastanza problemi, le pattuglie della polizia arrivavano anche 20 volte al giorno per cacciare le persone. Dopo un mese o due si sono calmati, ma poco fa abbiamo avuto un problema con la polizia comunale infastidita dagli striscioni con la scritta ‘basta terrore sui migranti’. Dà loro fastidio il fatto che siano rumorosi. Ma in realtà queste persone cantano, giocano, in quattro mesi non c’è mai stato un solo incidente», racconta Nataša.
Ad ogni persona che passa da questo parco è chiaro che ai rifugiati la cosa che serve di meno è un incidente. Sono stanchi del viaggio, disperati per la vita che si sono lasciati alle spalle, preoccupati per l’incertezza che li attende, desiderano solo tirare il fiato ed essere al sicuro. E quando non comprendete cosa stanno cercando di comunicarvi nella loro lingua si capisce che i loro pensieri sono simili. «Non c’è più futuro per noi in Siria», racconta Mehriban. «A Kobane non ci sono più curdi, non c’è elettricità, né acqua, né cibo. Vorrei tanto tornare ad Aleppo, per terminare gli studi. Per stare in compagnia dei miei amici e della mia famiglia, ma anche loro se ne sono andati. E il mio cuore è rimasto là».