Riad Sattouf e l’arabo del futuro

La Libia, la Siria, il Medio Oriente, trent’anni fa, a riflettori spenti, nel primo volume della trilogia “L’arabo del futuro”, di Riad Sattouf, edito in Italia da Rizzoli Lizard.

di Valeria Nicoletti

L’arabo del futuro va a scuola. L’arabo del futuro è moderno e parla bene. E, nel caso del piccolo Riad, non è improbabile che abbia anche i capelli biondi e gli occhi azzurri, a costo di sembrare americano o, nella peggiore delle ipotesi, ebreo.

Vincitore del premio Fauve d’Or, come Miglior Album allo scorso Festival del Fumetto di Angoulême, “L’arabo del futuro – una giovinezza in Medio Oriente (1978-1984)” (Rizzoli Lizard) è la storia vera di un bimbo biondo e della sua famiglia, nella Libia di Gheddafi e nella Siria di Hafiz Al-Assad. Si presenta così il primo volume della trilogia firmata da Riad Sattouf, classe 1978, disegnatore, sceneggiatore e autore, alla scrivania di Charlie Hebdo per nove anni, nato a Parigi da padre siriano e madre francese.

L’autobiografia al servizio della storia o, forse, il contrario. Come “Maus”, il capolavoro di Art Spiegelman, o il più recente “Persepolis” di Marjane Satrapi, i ricordi, gli aneddoti, le piccole memorie insignificanti di una vita comune compongono l’affresco di un universo sparito, nel caso di Sattouf, quel mondo arabo di trent’anni fa, tenuto a luci spente, estraneo al clamore mediatico degli ultimi decenni. La vita a fumetti di Sattouf comincia già qualche anno fa, quando aveva raccontato della sua circoncisione, nella Siria degli anni Ottanta, tra Conan il Barbaro e Goldrake.

Con “L’arabo del futuro”, è di nuovo il piccolo Riad a parlare, con la diffidenza dei bambini verso le assurdità dei grandi, con la stessa innocente perplessità, per raccontare una storia che lo riguarda ancora molto da vicino.

Una parte della sua famiglia è esiliata in Giordania e in Egitto. “È stato facile farli fuggire dalla Siria ma impossibile lasciarli entrare in Francia”, racconta, e nasce anche da questa impotenza, la voglia di disegnare e scrivere la parabola di una famiglia in Medio Oriente, dall’inizio, dagli anni Settanta, quando Siria e Libia non erano ancora sotto i riflettori dell’Occidente, quando poco o nulla si sapeva della routine dei dittatori, del pensiero unico imposto da Gheddafi, della Siria del primo Assad. Ecco allora l’infanzia di Riad, sei anni, biondo con gli occhi azzurri in una terra di medio-orientali. Il padre, siriano, professore di storia, con in mano un dottorato alla Sorbona, è un cantore del panarabismo, dell’educazione come unico modo per gli arabi di sottrarsi all’oscurantismo religioso. La madre, Clémentine, bretone, segue gli spostamenti della famiglia, adattandosi a fatica agli usi e costumi dell’altra sponda del Mediterraneo.

 

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La storia è assente, se non in quelle poche note a margine, negli appunti che un narratore onnisciente sembra riservare al lettore, oppure s’intravede nelle razioni di cibo attese dalla cooperativa, un giorno per gli uomini e un giorno per le donne, nei curiosi siparietti di vita quotidiana, la miseria, il finto socialismo di un paese, dove non esistono lucchetti o serratura e basta uscire a fare una passeggiata per non trovare più la propria casa al ritorno. Lo sguardo di Riad è contagioso e che il volto di Gheddafi tappezzi ogni spazio pubblico e privato ci stupisce come la lingua ruvida della nonna che lecca le palpebre dei nipotini per pulirne gli occhi.

Tutto è raccontato dall’altezza di una sedia o poco più, dalla prospettiva di un bambino di sei anni in terra straniera. Anche la crudeltà, la cattiveria insensata di un bimbo che tortura un cagnolino, resta sospesa, quasi troppo verosimile per essere vera, troppo cruda per essere sopportata se non da quell’indifferenza dei più piccoli che, come ci dice Riad all’inizio del libo, ancora non distinguono il sogno dalla realtà.

Non c’è dietrologia, non c’è analisi, non c’è pregiudizio, né morale, non c’è conflitto, se non nell’odio immotivato dei bambini verso Stati Uniti e Israele, ereditato dai genitori, come i capelli scuri e gli occhi neri.

Oltre alla comicità in perfetto stile Sattouf, il pregio di questo album è quello di calarsi nelle vesti di un piccolo arabo di sei anni, che parla francese, non capisce cosa dicono i cugini e non sa dove è più giusto sentirsi a casa. «In Siria ero francese, in Francia un arabo con un nome bizzarro», l’arabo del futuro sembra avere soprattutto qualcosa di molto vicino a tutti noi: partire e sentirsi straniero, tornare a casa e pensarsi come esotico, altro, diverso. L’esperienza dell’alterità che si prolunga in ogni dove. L’arabo del futuro è Riad, ma lo è anche suo padre, siriano, laureato in Francia, e la sua concezione post-moderna di identità, preda di un inevitabile scarto culturale al ritorno a casa. Siriano in Francia, francese in Siria, l’arabo del futuro è straniero, come l’arabo del presente, come tutto il resto del mondo.