di Laura Cesaretti
Qualche mese fa, l’ufficio decide di mandarmi a Dubai per rinnovare il visto. Io non volevo uscire da Kabul per finire nella più famosa prigione dorata del Medio Oriente, fatta di aria condizionata e pavimenti luccicanti, ma sembrava non ci fosse altra soluzione. 30 ore, biglietto di andata e ritorno a notte fonda con la compagnia locale. L’albergo però, e uno di quelli come si deve.
Preparo i documenti e vado.
L’entrata per l’aeroporto è una serie infinita di check point, dove le guardie mi perquisiscono, annoiate ma testano divertite il mio dari, la lingua ufficiale afghana. L’aeroporto di per sé è piccolo. C’è solo un gate e gli addetti ai lavori strillano il numero del volo di turno. Non c’è la smocking area, ma i ragazzi delle pulizie ti fanno fumare in uno stanzino per 50 afghani, più o meno un dollaro, e vale per tutte le volte che vuoi. Nella sala di attesa, incontro anche una mia amica in viaggio verso Dubai per un weekend di lavoro: “Una volta fuori da qui mi vizio come si deve”, mi dice “ceretta e sopracciglia superlusso al Dubai Mall”, mentre ride contenta.
Perché Dubai è, per tutti quelli che vivono in Afghanistan, il paese dei balocchi. A chiunque parta viene affidata una ‘lista della spesa’, fatta di creme, prodotti vari e bottiglie di alcool, ovviamente.
Persino la polizia di frontiera degli Emirati Arabi lo sa, e quando vede che arrivi da Kabul, ti guarda sorridendo augurandoti un buon riposo. E hanno ragione. Ero stata a Dubai altre due volte, ma entrambe arrivavo da Roma e Beirut, capitali affascinanti e dalla vita vivace. Non pensavo che, dopo soli pochi mesi, Kabul mi avrebbe stancato così tanto da farmi apprezzare anche questa città.
Eppure, è bastata una lunga camminata e una birra ghiacciata in un locale pubblico per farmi vendere l’anima alla capitale del lusso inutile e del denaro corrotto. Ma ero troppo contenta per preoccuparmene. Allora, ho immaginato come possa sentirsi un giovane afghano dopo mesi di lavoro, senza possibilità di altri spazi sociali e distrazioni. Fino al 2009 la vita nella capitale afghana non era così, raccontano tutti. Le famiglie uscivano molto di più e i locali erano frequentati sia dalla gente del posto che dagli stranieri. Oggi, invece, quegli stessi posti negano l’ingresso agli afghani stessi per motivi di sicurezza.
Eppure, nonostante questo razzismo latente e una routine dettata da norme di sicurezza, le settimane passano veloci anche nella capitale afghana. Basta una passeggiata per un succo di frutta a rendere una giornata speciale, regalando il sapore di un’estate coperta da lunghi vestiti colorati. Anche le amicizie crescono in fretta. Con i suoi 3 milioni di abitanti, la Kabul degli expat e degli afghani che li frequentano è in realtà un piccolo paese. Ci si conosce più o meno tutti, di vista o solo di nome. C’è il commercialista che cammina per la città con i vestiti tradizionali e la sua barba lunga. Il militare che passeggia su per le montagne chiacchierando con la gente del posto, la ragazza dai capelli rossi che gira in moto per le strade della città.
Ognuno ha storie, motivi, racconti diversi. Ognuno ha la sua Kabul, costruita con solitaria pazienza e determinazione.
Per questo, dopo solo un giorno e mezzo di viaggio, Dubai si rivela per quello che è, un semplice posto di transito. Ma è Kabul che manca.
Lei, la città che non incrocia i vizi dell’est e dell’ovest come Dubai, ma rimane, nonostante tutto, come una vergine in un bordello di alta classe: circondata da denaro, ma povera; affascinata da ciò che non conosce, ma pronta a tutto per difendere il suo onore. E’ qui che si sente parlare un inglese perfetto anche da chi non ha mai viaggiato in paesi anglosassoni. E’ qui che si discute per strada i problemi dal Laos alla Germania, facendo osservazioni politiche acute nonostante la bassa educazione. E’ qui che si vede la tolleranza culturale tanto ambita dalla nostra Europa. L’Afghanistan, infatti, è un paese che, nonostante le difficoltà e le umiliazioni, ha imparato a gestire i capricci degli stranieri che vengono a lavorarci e a tollerare, sorridendo, la loro diversità.
Sarà per questo che, nonostante gli attacchi e le restrizioni, sono in tanti a voler tornare a vivere qui. In fondo, l’unica vera difficoltà da affrontare per noi stranieri, è capire la linea, ciò che distingue la paranoia dalla prudenza, i complottismi dalla negazione dei problemi, la vera bellezza, dal disagio.
Mentre rientro un po’ emozionata da Dubai, vedo spiccare tra la valle della città il compound dell’Ambasciata americana. Le storie degli intrighi per entrare solo per assaporare il caffè dello Starbucks che si trova dentro, sono tante. Alla fine, penso tra me, come si può criticare chi vuole solo bere un buon caffè? Certo, però, che fa strano vedere questo compound dominare tra il resto della città. Così come fa strano realizzare che due mongolfiere galleggiano nel cielo sopra Kabul 24/24h: “Sono le telecamere di sicurezza degli americani” mi dice sorridendo Khader, l’autista dell’ufficio che mi è venuto a prendere all’aeroporto. “Fa ciao con la mano, sei di nuovo a casa”.