di Christian Elia e Angelo Miotto
Il voto in Grecia di ieri, 20 settembre 2015, ha sancito che al momento per il popolo greco non esistono alternative ad Alexis Tsipras. I sondaggi dei giorni scorsi hanno solo confermato le sensazioni della tornata elettorale di gennaio scorso e del referendum di luglio per il memorandum con l’Ue: le testate giornalistiche del paese ellenico sono tutte, o quasi, in mano all’opposizione e si sono sempre mosse più sull’onda delle loro aspettative che rispetto agli umori elettorali.
In attesa dei risultati definitivi, Syriza sembra aver tenuto in pieno il suo elettorato: se nel gennaio 2015 ottenne il 36,34% delle preferenze, le proiezioni attuali gli accreditano il 35,5 %. I veri sconfitti delle elezioni sono i cosiddetti esuli di Syriza, che pure sembravano – sulla carta – intercettare meglio la rabbia dei cittadini greci, ormai stanchi di guerra, dopo anni di crisi economica e ricette d’austerità.
Unione popolare, che pure non era riuscita ad aggregare tutti i fuoriusciti della compagine guidata da Tsipras, pare non riuscire neanche a superare lo sbarramento. Perché? Tanti osservatori, anche troppi, immaginavano il voto a Tsipras di gennaio come una sorta di mandato a rompere con l’Ue. E ancora di più sembrava esserlo il referendum di luglio. Evidentemente, però, il voto a Tsipras aveva anche altre sfumature, ben più profonde.
I greci non hanno mai, neanche per un momento, smesso di sentirsi europei. La crescita elettorale del movimento di Syriza parte da lontano, non solo dalla lotta all’austerity. In un lavoro del 2008, dalle testimonianze raccolte sull’attività di Syriza nei quartieri di Atene, Salonicco e delle altre città greche, si intuiva già come la piattaforma tenesse assieme anime anche differenti per provenienza, ma unite da una base di principi condivisi quali la lotta alla corruzione, la dignità sociale di lavoratori e classi meno abbienti, la lotta all’evasione fiscale e il disgusto per il razzismo.
Unione popolare, alla fine, non ha saputo rappresentare agli occhi dell’elettorato greco una vera alternativa, ma è passata molto più come un fronte del NO, sempre e comunque, a tutti i costi. E di sicuro, l’assenza della star Varoufakis non ha agevolato, anzi, ha amplificato le perplessità che una parte degli elettori avevano sulla capacità di governare solo contro qualcosa.
Ora bisogna andar cauti: molte delle mosse di Tsipras hanno confuso chi guarda alla Grecia come laboratorio politico di una governance differente dell’Europa. Ancora oggi, nel momento in cui si è reso conto che la Grexit non era il suo orizzonte, il referendum convocato a luglio lascia perplessi. Perché è democraticamente sacrosanto chiamare i cittadini a esprimersi, ma se è poi la ragion di Stato a dettare le scelte, si corre il rischio di far sentire traditi i cittadini.
Ecco, sembra che questi, non pochi, abbiano però scelto l’astensionismo: rispetto al voto di gennaio, l’astensionismo è cresciuto dal 36,4 % al 45,2 %. Dati che oramai in Europa e America non colpiscono più, essendo diventate la normalità, ma che invece sono significative in Grecia, dove passione e partecipazione non sono mancate mai, neanche nella disperazione.
Ecco che il dato si fa largo: alla maggioranza dei greci non pare possibile, in questo momento, un’alternativa credibile a Tsipras, con tutti i suoi dubbi. Al massimo, non sono andati a votare. Ma non hanno votato Nea Demokratia, che è solo riuscita a compattare il suo elettorato, non certo a intercettare altri voti, o i nazisti di Alba Dorata, che persa la pietosa speculazione sul tema migranti (salvo le isole isolate, oramai, i flussi sono altrove), restano ancorati al loro zoccolo duro.
Perché quel che ci suggerisce il voto di oggi, alla fine, è che ad Alexis Tsipras è stata ancora una volta riconosciuta la sua alterità dalla classe dirigente greca che ha sprofondato il Paese nella notte più nera. Gli è stato ancora riconosciuto di essere diverso, in attesa (magari anche di risultati elettorali interessanti in altri paesi europei) di essere anche incisivo fino in fondo.