di Anna Caltabiano
Era il 30 ottobre 2014 e la popolazione scendeva nelle strade per protestare contro il regime di Blaise Compaoré e il suo tentativo di modificare l’articolo 37 della Costituzione per potersi presentare ancora una volta alle elezioni presidenziali. Non c’erano più i presupposti affinché il regime compaorista, che da 27 anni giostrava abilmente i giochi politici all’interno di un semi-autoritarismo legittimato con le elezioni, rimanesse ancora in vita.
Era l’1 novembre 2014, il Governo era ormai sciolto, e già i militanti si rendevano conto di aver vinto la battaglia, ma non la guerra. Al tentativo di mettere a capo della transizione politica un civile si opponeva con forza l’ala militare. Difficile in quel momento poter giustificare la morte di almeno 30 giovani burkinabé durante le rivolte e tentare al contempo di gestire gli equilibri di potere interni al corpo militare. Inizialmente Isaac Zida, sostituito poche settimane dopo da Michel Kafando, verranno scelti come presidenti del Governo di transizione.
A quasi un anno dalle rivolte di ottobre l’atmosfera politica in Burkina Faso è in fermento. Il 19 settembre dovrebbe iniziare la campagna elettorale e tanti si interrogano sui nuovi scenari che si prospettano per il Paese.
Alcuni candidati sono stati eliminati dalla liste elettorali e non potranno concorrere alla campagna per le presidenziali, alcuni elementi della “vecchia guardia” sono stati reputati ineleggibili dalla Corte Costituzionale perché accusati di aver difeso la modifica dell’articolo 37 e quindi ritenuti i fedelissimi di Compaoré. Molti sono quelli che percepiscono tale atto come la volontà di dimostrare che vi è un cambiamento, la volontà di “voltare pagina”. Eppure su quelle liste rimangono dei membri accusabili non meno di altri di aver supportato il vecchio regime. In che direzione si sta andando? Nella prima metà settembre i partiti cominciano a preparare il proprio terreno. Nei quartieri delle città si riattivano i primi comitati, si organizzano le prime assemblee di partito e ricominciano le promesse elettorali nelle città e nelle campagne. Ma questa volta tutti i partiti, indistintamente, promettono il cambiamento. Nuove prospettive di una vita migliore all’orizzonte dell’11 Ottobre. Programmi elettorali? No, non ancora, ma come sempre molte promesse. Pochi corrono il rischio di appellarsi ad un’ ideologia, sempre meglio lasciare ad ogni partito la permeabilità che gli consenta di potere attrarre a sé quante più persone possibile. Una cosa è certa, non sarà più come prima. Perché le elezioni saranno più trasparenti, i giochi politici più monitorari, i media più liberi di esprimersi.
E poi, a tre giorni dall’inizio della campagna elettorale, il pomeriggio del 16 Settembre tutto si arresta. Primo Ministro, Presidente e due ministri della Transizione vengono presi in ostaggio in seguito all’irruzione di alcuni membri del Reggimento di Sicurezza Presidenziale (RSP) nel palazzo presidenziale di Kossyam in occasione di una riunione del Consiglio dei Ministri. Il Governo di transizione stava “osando” approvare una legge che avrebbe ridotto il potere dell’ala armata più potente del Burkina, la RSP.
E’ il generale Gilbert Diendéré che si dichiara alla testa di quello che viene rapidamente definito un “colpo di Stato”. Diendéré, braccio destro di Compaoré fino a poco tempo prima del suo declino, conosciuto in ambito regionale come stratega e faiseur de rois, è a capo di un Consiglio Nazionale per la Democrazia (Conseil National pour la Démocratie-CND) e giustifica la presa di potere con la scusa di voler proteggere il popolo dalla grave situazione di insicurezza pre-elettorale. Inaccettabile.
Come osano loro definrsi democratici? Come osano proclamarsi difensori del popolo? Come osano interrompere un processo tanto atteso, conquistato a colpi di fucile e spargimento di sangue?
Il senso di ingiustizia è forte. “Troppo è troppo”. E allora molti giovani si riversano per strada, ma l’RSP non vuole che si riuniscano e questa volta conosce bene i luoghi di assembramento dei militanti perché le rivolte di Ottobre hanno fatto da maestre. Cominciano i primi colpi di arma da fuoco per disperdere la folla. I partiti condannano immediatamente il colpo di Stato. I sindacati e le organizzazioni della società civile incitano a non accettare lo status quo. Le prime condanne a livello internazionale. Sulla strada i primi morti. Negli ospedali i primi feriti bisognosi di soccorso. Questa non è democrazia…a Ouagadougou è facile rendersene conto.
Chi sta reagendo contro gli abusi del RSP? Chi sta difendendo gli innocenti? Chi sta evitando che si colpiscano gli obiettivi selezionali dalla guardia militare? Nessuno.
E’ il 19 Settembre e cominciano le negoziazioni con il CND, il presidente senegalese Macky Sall e il beninese Thomas Yayi Boni, in rappresentanza della CESAO, cercano di creare le condizioni affinché si possa reinstaurare il Governo di transizione e procedere in tempi brevi alle elezioni. Certo il bisogno primario é di ristabilire la pace e ritornare all’ordine. Molta gente tra la popolazione è favorevole al compromesso pur di ritornare alla normalità perché per chi vive giorno per giorno restare bloccati per più di tre giorni significa non sapere come sfamare la propria famiglia. Altri giovani continuano a protestare perché “non si scende a patti con degli assassini” e “non si calpesta in questo modo la dignità di un popolo”.
Non si sa se il compromesso sarà raggiunto, accettando l’inclusione nelle liste elettorali di coloro che erano stati esclusi ed evitando di prendere qualsiasi provvedimento che modifichi i poteri della guardia presidenziale, ma è legittimo chiedersi se i golpisti rinunceranno effettivamente al potere conquistato da poco meno di una settimana, accontentandosi dell’amnistia loro concessa in corso di negoziazione. Il “progetto di accordo” deve essere in ogni caso validato dai presidenti della CESAO che il 22 Settembre si incontreranno per un vertice straordinario che si terrà ad Abuja, in Nigeria.
Nel frattempo mentre sulle strade e nelle case ci si chiede che fine abbia fatto lo Stato che con il monopolio legittimo della forza avrebbe dovuto proteggere i suoi cittadini, nel pomeriggio del 21 settembre l’ala dell’esercito nazionale fedele al regime di transizione entra in scena.
I capi della forza armata nazionale richiedono all’RSP di deporre le armi mentre dei militari provenienti da almeno tre province del Paese avanzano verso la capitale “pronti” ad uno scontro con l’RSP “finalizzato al disarmo”.
In questa situazione di forte instabilità come non chiedersi quale sia il contenuto delle lotte che stanno animando il Paese. Certo la situazione è in evoluzione, nulla è più come prima, ma gli spettri del passato sono ancora tanti ed è lunga la strada verso la democrazia.
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