di Massimo Conte
Lo confesso apertamente. A me le scritte sui muri piacciono. Certo, non tutte, non sempre e non dovunque. Ma, in generale, a me piacciono.
Per esempio, mi piacciono le dichiarazioni d’amore. Anche quelle sgrammaticate ed eccessive. Mi piacciono gli slogan politici, soprattutto quando esprimono fantasia, un po’ meno quando sono troppo truci. Però, confesso la mia intima contraddizione, non mi piacciono le scritte fasciste o razziste. Non perché stanno sui muri, ma per quello che dicono.
Qualche mese fa un’amica, impegnata a spulciare l’Archivio Primo Moroni per la scrittura di un articolo, ha trovato un volumetto del gruppo redazionale “Io e gli altri” intitolato “Le scritte sui muri”. Lo potete scaricare qui.
Troverete frasi semplici e, da alcuni, discutibili sul perché sono belle le scritte sui muri.
“Scrivere sui muri di casa per un bambino è una esperienza eccitante. Le pareti offrono ampie superfici invitanti. Il bambino è contento di tracciarvi segni e scarabocchi perché è una delle prime cose che fa, è una sua produzione. Si sente capace di cambiare e di aggiungere qualcosa alle cose intorno a lui”. Le nostre figlie, per esempio, sono sempre state libere di farlo in casa.
Lasciare traccia di sé, della propria storia, delle proprie passioni, dei propri pensieri mi sembra una cosa così meravigliosamente umana. Insomma, a me piacciono.
Così come mi piacciono le strade piene di scritte. A cosa serve lo spazio pubblico, mi chiedo, se non a diventare un album di ricordi o un luogo di scambio di opinioni?
Oppure, un posto dove gridare ciò che si pensa? Come dimenticare che lo spazio pubblico è il luogo del confronto e dello scontro tra l’autorità che prova a regolarlo e chi prova ad appropriarsene fuori dalle regole? Il fascismo scriveva i propri motti sui muri delle case, trasformando le facciate in uno spazio di costruzione del consenso; sui muri delle case (o nei bagni delle fabbriche) l’antifascismo irrideva Mussolini e i suoi motti.
Capisco bene che possano rappresentare un danno, ma mi sembrano il male minore. Almeno fino a quando le nostre strade non saranno ricolme di arte e di creatività, almeno fino a quando la bellezza non sarà la cifra stilistica di urbanistica e architettura. L’alternativa più spesso praticata, fatta di controllo e repressione, a me sembra di gran lunga un’alternativa peggiore.
Mi piacciono le scritte sui muri e mi fa paura la pedagogia delle spugnette. Sono convinto che prendersi cura dello spazio pubblico non significhi cancellare l’eccedente e maleducata espressione di sé, ma significhi promuoverlo come luogo di confronto. Sterilizzare lo spazio pubblico è un modo per governarlo, cancellando contemporaneamente le tracce di persone che affermano la propria soggettività ed esprimono forme di resistenza e di attrito.
Quando sono stato nella banlieue parigina di Mantes La Jolie, nel quartiere de Le Val Fourré (trovate qui il mio reportage), i ragazzi che ho incontrato mi hanno raccontato di come la municipalità provvedesse all’alba a cancellare le scritte apparse alla notte. Nessuno doveva leggere le loro grida contro la segregazione subita.
Nei giorni scorsi un’associazione antri graffiti milanese ha lanciato la sua nuova campagna di “clearing”, come la chiamano loro, scegliendo un luogo carico di elementi simbolici: la Casa circondariale di San Vittore e le sue mura esterne. Saranno riverniciati anche alcuni muri interni, con la partecipazione dei detenuti e la collaborazione della Direzione dell’Istituto. C’è qualcosa di paradossale nel fatto che i reclusi debbano prendersi cura di ciò che li reclude, ma non è su questo che voglio ragionare.
Voglio ragionare del valore pedagogico di questa pulizia. Una pulizia che valorizza il carcere quale luogo di giustizia e rieducazione che deve essere preservato dal vandalismo e dal degrado. Un messaggio che nasconde due livelli di contenuto.
Il primo è che il carcere torna a essere valorizzato come luogo di buon governo delle persone. Dovremmo riprendere in mano Foucault, giusto per ricordare quanto sorveglianza e punizione siano tecniche di governo e che non ci sono tecniche neutrali rispetto alle forme di potere.
Il secondo livello è che la contestazione dell’esistenza del carcere, la denuncia della qualità politica del suo essere strumento di governo, la forma anonima e pubblica con cui movimenti di lotta hanno negli anni provato a criticare il carcere, ecco, tutto questo è ridotto a vandalismo.
Con l’inversione tipica di questi anni, diventa scandalo la denuncia, non l’oggetto della denuncia. A essere oggetto di una pedagogia repressiva è chi grida allo scandalo, non chi lo rinnova.
“Scrivere sul muro è un po’ come gridare. È un modo per esprimere un desiderio o un sentimento che si vuol far conoscere a tutti e che si vorrebbe che tutti condividessero”, un’altra frase presa da “Le scritte sui muri”.
Ecco, a me passare fuori da San Vittore e leggere scritte come “Il carcere non è la soluzione ma parte del problema” è sempre piaciuto. Mi fa sentire che il mio sentimento è condiviso da altri.
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