di Costanza Pasquali Lasagni, da Gerusalemme
Questo articolo rappresenta il punto di vista dell’autrice, espresso a titolo personale
Questa non è una storia d’amore. O almeno, non è la storia d’amore di Romeo e Giulietta. O di coppie palestinesi che si sposano ai checkpoint o che cercano di evadere le strette regole dei permessi per la riunificazione familiare.
Forse non è una storia d’amore convenzionale, con mazzi di fiori e serenate. O forse è la relazione più naturale e convenzionale che esista. Quella per cui ci si immedesima negli altri e si desidera il meglio per loro e ci si attiva per farlo.
Questa è una storia che va raccontata.
È la storia di Tom Sperlinger e del suo semestre di insegnamento di letteratura inglese presso il campus di Abu Dis dell’Università di Al Quds, di Gerusalemme, da lui stesso narrata nel suo libro Romeo and Juliet in Palestine – Teaching under Occupation, un po’ diario di viaggio e pensieri, un po’ appunti mentali di un professore sempre impegnato nel cercare di capire, interrogarsi, migliorarsi per sé e per i suoi studenti, un po’ manifesto e messaggio al mondo che c’è fuori. È una bella storia.
Tom l’ho conosciuto per caso, mentre un tardo pomeriggio di marzo andavo alla mia libreria preferita per assistere alla presentazione di questo libro dal titolo romanzesco e che in realtà, avrei scoperto leggendolo, rivelava tutt’altro. Durante la presentazione, Tom ne leggeva stralci e raccontava storie, conquistando il pubblico, frase dopo frase.
Perché era chiaro che non stava tenendo una lezione, o raccontandoci spocchiosamente la sua esperienza di professore di letteratura inglese in una terra dove l’inglese è lingua di comunicazione, dove tutti la sanno parlare ma pochi leggere e scrivere, figuriamoci capire Shakespeare. Sarebbe stato facile per Tom, per chiunque di noi “forestieri”, scegliere l’approccio paternalistico, per raccontare la “propria” Palestina. E invece no, perché, come racconta Tom stesso, con curiosità ed interesse, “quanto questi ragazzi avrebbero da insegnare ai loro coetanei nel Regno Unito, loro che per primi vivono sulla loro pelle esperienze pratiche di concetti astratti che noi studiamo sui libri”. Uno per tutti, “l’ingiustizia”.
Tra scioperi, evacuazioni del campus e gas lacrimogeni, tra chi non ha potuto studiare perché suo fratello è stato arrestato nella notte, o perché “tanto leggere a cosa mi serve, professore, è una perdita di tempo”, Romeo e Giulietta, ma anche Giulio Cesare, Amleto, Iago, Tebaldo, smettono di essere gli attori della storia principale, escono di scena, ne diventano il fondale e lasciano il palco agli studenti, improvvisamente protagonisti.
Ai ragazzi è chiesto di riscrivere la storia, le storie, le tragedie e le commedie, le poesie e i romanzi, ambientandoli nel presente palestinese, o nel passato, o sostituendo personaggi, o chiedendo “cosa sarebbe successo se Romeo e Giulietta fossero in Palestina” (“sarebbero divisi dai checkpoint, o dal muro, o dalle ID”), “quali strumenti avrebbero a disposizione oggi” (“Facebook” in primis), “come reagirebbero le famiglie”. Sostituendo linguaggi, facce, colori, parole. In poche parole, chiedendo agli studenti di pensare e ‘andare oltre’ i testi letterari.
Che stia accadendo qualcosa di rivoluzionario, Tom se ne accorge, quando, percependo alcune resistenze da parte di alcuni suoi studenti, si interroga pensando di aver adottato un metodo sbagliato, finché un suo studente esasperato sbotta: “Professore, di solito ci chiedono di imparare a memoria per gli esami. È la prima volta che qualcuno ci chiede di pensare.”. “E’ una critica?”, chiede Tom. “No, solo un grande cambiamento”.
La rivoluzione, per chi nella vita reale spesso deve tenere un ruolo – che non ha scelto, che gli sta stretto o grande – o fare i conti con la quotidianità complessa come quella di chi vive dall’altro lato del muro, avviene online. Avviene quando, per facilitare il coinvolgimento degli studenti anche fuori dall’aula universitaria, Tom crea un gruppo Facebook di discussione, un blog, dove posta poesie, brani, idee, e gli studenti, protetti dall’anonimato di un nickname o di un avatar, o semplicemente riparati dall’imbarazzo di dover parlare davanti a tutti grazie allo schermo-filtro, non solo commentano, ma postano brani a loro volta, di letteratura palestinese, di Malcolm X, di tutto quello che pensano, seguendo il filo della riflessione.
Ne nascono discussioni che a volte continuano in classe, nei corridoi dell’università, o nei tragitti in pulmino da Ramallah ad Abu Dis, o viceversa, dove gli studenti si premurano che il professore sia comodo, che il suo caffè al cardamomo sia caldo, che capisca la situazione politica, sociale, economica, che se la possa cavare e nel caso lo fermino i soldati “Lei dica che non ha opinioni politiche, se qualcuno glielo chiede”. Perché il campus di Abu Dis, in West Bank, separato dal corpo principale dell’Università di Gerusalemme dal muro, è teatro di scontri, quasi quotidiani.
È tutto un mettere in discussione, dai brani alle idee al concetto stesso di istruzione e poi a quello di intelligenza, che noi ancora misuriamo con i voti, quando in realtà non sappiamo cosa ci perdiamo poiché “ci priviamo della possibilità di entrare in contatto con coloro la cui vita ha un prezzo più alto da vivere”. A cui il conformismo, nel senso di doversi conformare ad una realtà dura e impietosa in questo caso, sta più che stretto.
Sta stretta anche a Tom, che ammette che l’occupazione “permea ogni aspetto della vita quotidiana” e pensa che forse la linea di divisione tra le parti non è il confine, ma piuttosto come queste divisioni sono percepite, nelle due società, tanto che si chiede se gli mancherà tutto questo. È uno studente a riportarlo alla realtà: “Nessuno vorrebbe crescere i suoi figli qui, professore”.
Quando la stessa Hannah Arendt avverte che, se pensare può essere rischioso, non pensare può essere ancora peggiore, l’università, spiega Tom, è l’ambiente ideale in cui scambiare idee, dove uomini e donne possono essere nello stesso ambiente, dove ci si può – per chi può – crogiolare ancora nella libertà di non dover entrare a forza nella vita da adulti “fuori” dal campus, magari con un fratello in prigione, una sorella accusata di fare la spia, cercare un lavoro che non c’è. Dove, secondo Tom, si può incoraggiare la responsabilità individuale, che si accetta di prendere sia quando si sceglie di agire che di non agire. Di non leggere. Di non pensare.
Questa non è la storia d’amore di Romeo e Giulietta. Questa è la storia che dice che chi comincia a pensare, ha già vinto.
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