di Juri Saitta
Se i festival sono lo specchio e l’anticipazione dell’imminente stagione cinematografica, allora si può affermare, stando ai risultati della 72a Mostra del Cinema di Venezia, che quella che verrà non sarà particolarmente buona.
Infatti, la quarta edizione della direzione Barbera-bis è stata debole, soprattutto il concorso ufficiale, nel quale sono spiccati pochi titoli degni di nota e non sono mancate scelte del tutto sbagliate (in primis Equals e The Endless River).
E pure la missione di scoprire nuovi autori è sostanzialmente fallita: anche se i registi giovani e/o esordienti non sono mancati e alcuni di loro hanno portato qualcosa d’interessante (si pensi a Wednesday, May 9 di Jalilvand), la maggior parte dei titoli più meritevoli sono stati girati da cineasti ormai affermati, come Wiseman (In Jackson Heights), Skolimowski (11 Minutes) e Sokurov (Francofonia), in quello che è stato un festival più di conferme che di sorprese.
La responsabilità di tutto ciò non va addossata interamente sulle spalle di Barbera, ma è da cercare soprattutto nella situazione cinematografica generale. Da un lato, l’annata che si preannuncia non sembra promettere molto bene (si dice che anche i festival di Berlino, Cannes e Locarno siano stati sottotono), mentre dall’altro è ormai da tempo che la Mostra subisce la concorrenza sempre più agguerrita dei festival di Toronto e New York.
Barbera si muove dunque in un contesto sempre più complesso e difficile, cercando comunque di formare una manifestazione equilibrata che si dipana tra vecchi maestri (i già nominati Sokurov, Wiseman, ecc.), giovani autori (Vigas, Corbet, Messina), film adatti per gli Oscar (The Danish Girl) e opere dichiaratamente commerciali (Everest).
Ma una qualità, il direttore della Mostra la sta dimostrando: quella di saper intravedere o di creare, almeno nelle intenzioni, delle tendenze.
Il 2013, infatti, è stato l’anno del documentario, con due film appartenenti a questo genere entrati nella competizione ufficiale per la prima volta nella storia del festival. E come sappiamo uno dei due (Sacro Gra) ha pure vinto il Leone d’Oro. Non è certo stata una novità assoluta (i documentari già gareggiavano in altre manifestazioni, tra cui Cannes), ma comunque un segnale significativo di apertura.
Qualcosa di simile è accaduto anche quest’anno con il cinema latino americano, che secondo Barbera è il più interessante del momento. Non è un caso che le diverse sezioni abbiano ospitato numerosi film provenienti dal sud America: le Giornate degli Autori hanno proiettato la nuova opera del cileno Matías Bize La memoria del agua, Orizzonti è stata inaugurata dal messicano Un monstruo de mil cabezas, mentre il concorso ha ospitato l’argentino El clan di Pablo Trapero e il venezuelano Desde allà di Lorenzo Vigas.
Ed è proprio in tale direzione che vanno interpretati il Leone d’Oro a Vigas e quello d’Argento a Trapero: segnalare, confermare o magari semplicemente cercare di direzionare una tendenza, proprio come è successo due anni fa con il film di Rosi.
Tutto ciò al di là della qualità del singolo prodotto e del merito delle scelte, sicuramente discutibili, della giuria.
Dunque, una strada che tra equilibrismo e ricerca di nuove tendenze, sembra piuttosto chiara e che, speriamo, nei prossimi anni possa dare qualche frutto migliore.
E come lo scorso anno (https://www.qcodemag.it/2014/09/24/meglio-di-venezia-71/) cerco di stilare una breve lista dei titoli che mi hanno convinto maggiormente. Premetto però che, al momento, non sono riuscito a vedere né Per amor vostro di Giuseppe M. Gaudino né il documentario cinese Benemoth di Zhiao Liang, che dicono essere tra le migliori opere di questa Venezia. Dunque, la lista che segue non solo è parziale, come è ovvio che sia, ma è anche soggetta a eventuali modifiche o aggiunte.
11 Minutes di Jerzy Skolimowski (Concorso)
Un action-thriller che unisce spettacolo a teoria. Un film adrenalinico dalle molteplici storie e dai molteplici significati, riguardanti il destino, il caso e, soprattutto, la moltiplicazione e l’annullamento dell’immagine nell’epoca digitale.
In Jackson Heights di Frederick Wiseman (Fuori concorso)
Un documentario di circa tre ore e dieci che osserva nei particolari Jackson Heights, il quartiere più multietnico di New York. Ne emerge una comunità con i suoi problemi (i rapporti con la polizia), ma molto attiva, vivace e aperta. Una realtà, ci avverte il regista in un paio di sequenze davvero intense, che potrebbe essere annullata dall’intervento delle grandi aziende. Dunque, un film contemporaneo e attuale che riflette anche sull’impatto del capitalismo e della finanza nella vita quotidiana.
Francofonia di Aleksandr Sokurov (Concorso)
Il regista russo si addentra nel Louvre e unisce formati diversi (dal video digitale alla finta pellicola invecchiata) per realizzare un film-saggio, un’opera-riflessione sul rapporto tra arte, politica e storia.
Non essere cattivo di Claudio Caligari (Fuori concorso)
Film postumo di Caligari in cui il regista racconta in modo energico, ironico e amaro al tempo stesso le borgate romane tra spaccio e dipendenza dalla droga e speranza (che forse rimarrà tale) di futuro.
Wednesday, May 9 di Vahid Jalilvand (Orizzonti)
Un solido film iraniano che con una regia semplice ma intensa tratta della condizione femminile nel suo Paese e di problematiche più universali, come la responsabilità delle scelte, il lutto, il riscatto.
Rabin, the Last Days di Amos Gitati (Concorso)
Gitai firma un film-inchiesta (quasi) mai televisivo e dalla regia molto solida (ottimi due piani sequenza) sull’assassinio dell’ex primo ministro israeliano Yitzhak Rabin, che, secondo l’autore, stava cercando d’inaugurare un percorso di pace tra Israele e Palestina.
Tharlo di Pema Tseden (Orizzonti)
Un film cinese in bianco e nero che, attraverso la storia di un pastore ingannato da una giovane parrucchiera, riflette sul Tibet e sulla Cina odierni, tra memoria, modernità, tradizione, perdita dell’identità.
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