Io sono la gente

In mostra a Roma la criminalità organizzata in Italia raccontata a fumetti

di Gabriella Ballarini

Sono a Roma e decido di andare a vedere una mostra al museo in Trastevere, la mostra si intitola Mc Mafia: camorra e ‘ndrangheta nella storia del fumetto. Nella presentazione della mostra da parte dell’associazione DaSud un passaggio recita così: “E’ uno sguardo inedito e globale sulla rappresentazione delle mafie nella produzione fumettistica che va dal secondo dopoguerra ad oggi. Un grande lavoro di ricerca che raccoglie NOVANTA OPERE ORIGINALI di oltre 40 autori, distanti tra loro per provenienza e stili, con l’obiettivo di mostrare come i fenomeni criminali siano stati raccontati nel corso degli anni e come è cambiato l’immaginario”.

Me ne parla una persona che espone un suo lavoro alla mostra, ma me lo dice così, io lo prendo alla lettera e vado. Mentre arrivo a Trastevere cerco di pensare a me, a quello che penso io sulla mafia, a quello che mi immagino io. Penso e mi viene in mente di quando ero piccola, vivevo in un paesino nell’estremo ponente ligure, una specie di crocevia di passate migrazioni, quando il Diverso, era il calabrese con quelle lettere aspirate o l’abruzzese con quegli spiedini di pecora.

Il diverso era il lavoratore a cottimo nelle coltivazioni di fiori, era il mezzadro che divideva il pane con il padrone e poi prendeva il treno e tornava al sud. Insomma, in questa atmosfera, le famiglie si radicarono sul territorio, ed alcune diventarono le Famiglie. Ho un nitido ricordo di me, seduta al tavolo, la sera, a cena. Mi ricordo che si parlava di cose di paese, di quello che ha detto quello, a quell’altro.

Noi siamo famiglia abruzzese e quindi da buoni terroni a tavola urliamo per parlare, come se dovessimo ordinare un caffè in un bar affollato, ma d’improvviso, quando si parlava della Famiglia, anche se eravamo solo noi a tavola, con le porte chiuse, la voce si faceva bassa, un bisbiglio da chiesa, che così non ci sentono. Che poi la gente lo dice, che parlavamo di quelli lì. Ma chi ci doveva sentire? E se ci avesse sentito, la gente, ma che cosa doveva succedere?
Questo pensavo camminando in Trastevere.

Entro e non c’è nessuno, è un giovedì a pranzo, silenzio e una musica che supporta i disegni di Makkox, guardo lo schermo da cui arriva la melodia e leggo solo la parola Dio e poi la parola Mafia.
Inizio dalle tavole, leggo e poi mi perdo e mi ritrovo quando qualcosa mi ferisce. Ferita da un fumetto, questo non me lo aspettavo. La musica è l’unica cosa che riempie la stanza, guardo gli oggetti, leggo i nomi, qualcuno mi suona familiare ed altri proprio non lo so chi sono.

Nella città di Mafia Capitale, mi perdo nelle storie di chi non c’è più e ripenso alle parole di Chirico che in un’intervista rilasciata ad Enrico Natoli diceva: “A Roma siamo molto indietro. Per troppo tempo i cittadini che vedevano e capivano cosa stava succedendo sono stati trattati come pazzi visionari: se i cittadini di Ostia che subivano estorsioni e violenze denunciavano, ad esempio, gli veniva detto che stavano esagerando. C’è stato un ritardo nell’analisi e di conseguenza nell’azione”.

E mi sento in ritardo anche io.
In ritardo sulla storia del mio Paese e allora leggo per intero un tema, tra le “cose preziose” sono esposti oggetti che raccontano la vita di chi non è più in vita, leggo il tema, lo rileggo e la musica di Makkox non mi lascia in pace e quindi forse mi viene da piangere e siccome non c’è nessuno non mi nego il diritto a qualche lacrima. Leggo tutto quello che dicono gli oggetti in mostra, leggo le date e il tempo si ferma, come se ci fosse stata una guerra nel mio Paese ed io non me ne fossi resa conto. Mi viene in mente una poesia di Alda Merini che diceva così:

La mafia sbanda,
la mafia scolora
la mafia scommette,
la mafia giura
che l’esistenza non esiste,
che la cultura non c’è,
che l’uomo non è amico dell’uomo.
La mafia è il cavallo nero
dell’apocalisse che porta in sella
un relitto mortale,
la mafia accusa i suoi morti.
La mafia li commemora
con ciclopici funerali:
così è stato per te, Giovanni,
trasportato a braccia da quelli
che ti avevano ucciso.

“Per Giovanni Falcone” in Ipotenusa d’amore, La Vita Felice, Milano 1994, (2°edizione), p. 33

E sbando anche io, a volte sorrido di fronte alle tavole di satira, sorrido e atterrisco.
Una mostra poetica e crudele che racconta le storie che non ci prendiamo il tempo di ascoltare mai. Sono uscita, ho appoggiato le mani alla pietra del muretto fuori dal museo, come se mi stessi affacciando ad un balcone. Ho pensato alla gente e poi ho capito che la gente sono io.