Cartoline da Skopje

Un racconto a più voci dalla Macedonia nel burrascoso 2015. Tra monumenti megalomani, divisioni nazionali e cittadini che non si arrendono

di Francesca Rolandi, da Skopjie

Marina dice che si sente un’estranea a camminare per il centro di Skopje, non si orienta più, non riconosce gli scorci. Quindi lo evita, se non è costretta da qualche impegno. A Skopje ci è nata una quarantina di anni fa e per quasi una trentina, finché non ha lasciato la casa dei genitori, ha vissuto nel pieno centro che allora mancava di un vero e proprio nucleo storico, ad eccezione del piccolo mercato ottomano, a causa del terremoto del 1963.

“La città è rinata secondo un progetto avveniristico di un architetto giapponese che però era abortito in fretta per mancanza di fondi” racconta Marina che è un architetta, “chissà se fosse stato portato a termine forse sarebbe anche riuscito”.

Quello che confonde oggi Marina e la riempie di rabbia sono i monumenti che negli ultimi anni hanno iniziato a spuntare come funghi nel centro città. Nel 2010 il premier Gruevski lanciò il progetto Skopje 2014, che avrebbe dovuto cambiare il volto della capitale, dandogli quell’aspetto storico e antico che mancava. Circa 40 opere tra statue, fontane, monumenti equestri, archi, oltre alla costruzione di palazzi neoclassici hanno fatto parlare sui media internazionali di Skopje come della capitale del kitsch.

A dover essere inventata era un’identità nazionale nuova, quella che il partito VMRO-DPMNE al potere vorrebbe forgiare, per sostituirla a quella tradizionale, confusa, di melting pot tra i popoli: erede dell’Impero macedone, legata da un filo di continuità alla tradizione slava e alle insurrezioni contro gli ottomani. Così rappresentati, Alessandro il Grande, Filippo il Macedone, Cirillo e Metodio, insieme agli eroi nazionali che combatterono contro i turchi, sgomitano nel pieno centro per farsi spazio nel giro di meno di un chilometro quadrato.

Le due sponde sono collegate da un ponte decorato dalle figure di artisti macedoni, ma tra una ventina di padri della patria non c’è posto per le madri e quindi le donne mancano. Sotto bambini rom fanno il bagno nel fiume Vardar, che in quel punto è un rigagnolo a causa di una deviazione – spettacolare – al suo letto. “Le cose che mi fanno arrabbiare sono così tante che non so da dove partire” racconta Marina. Ma a spiccare sono i costi astronomici del progetto Skopje 2014, che secondo un report del network investigativo Birn sono lievitati dagli originari 80 milioni di euro a 560, in un paese piegato dalla miseria, dagli stipendi irrisori e dalla disoccupazione. Un simbolo perfetto dell’irresponsabilità dell’élite al potere. Marina è convinta che non cambierà mai nulla nel paese e si occupa più di politica.

Nikola invece delle manifestazioni che la primavera scorsa chiedevano le dimissioni del premier Gruevski non ne ha saltata una. Erano nate dalla diffusione di intercettazioni che mostravano come il governo avesse insabbiato l’omicidio di un manifestante da parte della polizia. Insieme a un corollario di corruzione, brogli elettorali, abusi di ufficio. Nikola è un artista, è stato due volte a New York per dei progetti, ma la terza volta il visto gli è stato rifiutato. “Proprio quando ero deciso a non tornare indietro”.

In maggio, insieme ad altri attivisti, ha inventato forme creative per protestare. Poi le manifestazioni si sono spente e lui è tornato alle difficoltà della vita di tutti i giorni, allo stipendio della moglie, giornalista presso uno dei più importanti media macedoni, che da 300 euro è stato abbassato a 250, agli amici laureati che vanno a fare i braccianti in Italia, ai bambini che crescono. E ha deciso di fare domanda per un passaporto bulgaro, come molti connazionali, per avere “le carte” di un paese UE anche se non Schengen.

Sofia, da parte sua, da tempo immemorabile considera i cittadini macedoni come bulgari ed è ben contenta di poterlo provare burocraticamente, grazie agli equilibri variabili dell’Europa unita, concedendo documenti a tutti quelli che possono provare un legame familiare. Nikola ha fatto questo passo non perché voglia andare via immediatamente ma per avere una via di uscita in caso la situazione peggiori. In particolare segue con apprensione il nazionalismo montante e le tensioni crescenti tra la comunità macedone e la minoranza albanese. Nikola, a differenza di molti abitanti di Skopje, frequenta albanesi e con alcuni ha stretto rapporti di amicizia.

Jasmin ha aperto un’attività nel campo del turismo in una località alle porte di Skopje che porta avanti con passione e competenza. Conosce il patrimonio artistico e naturalistico e lo sa spiegare ai visitatori in molte lingue, perché ha passato una decina d’anni, un terzo della sua vita “in Europa”, ma ammette che i turisti stranieri non sono molti. Non rilascia ricevute perché non ha i permessi ma, sebbene non paghi le tasse ufficiali, ciò non vuol dire che il suo guadagno gli entri in tasca al netto; paga il racket “ai suoi” che poi si mettono d’accordo con la polizia macedone.

Jasmin fa parte della piccola comunità albanese di Skopje e trova naturale votare per un partito nazionale, anche se è insoddisfatto della classe politica albanese e spera in qualcosa di nuovo. “Il problema è che qua siamo governati dalla mafia” concorda con Nikola “e quando la corruzione entra nei gangli di un sistema è difficile estirparla”.

Skopje si è trasformata in una città divisa, con quartieri albanesi che sono diventati negli ultimi venti anni quasi monoetnici perché i macedoni che vi abitavano hanno venduto le case. Questa suddivisione nazionale del territorio, in città e fuori, è marcata visivamente da simboli religiosi, grandi croci illuminate anche di notte e alti minareti, chiese ortodosse sfavillanti nelle loro decorazioni dorate e bianche moschee dal doppio minareto recentemente ristrutturate. Nel maggio scorso, nel pieno delle proteste che chiedevano le dimissioni del premier, le forze speciali della polizia macedone sono state coinvolte in un conflitto a fuoco nella città di Kumanovo con un gruppo di uomini armati.

Secondo le dichiarazioni del governo si sarebbe trattato di guerriglieri albanesi dell’Uck macedone che sarebbero stati in procinto di mettere a segno degli attentati terroristici. Negli scontri sono morte 22 persone, tra i quali 8 poliziotti. Ma alle spiegazioni ufficiali sono in molti a non credere, sottolineando la sospetta concomitanza con le manifestazioni contro il premier. Che cosa avrebbe potuto meglio unificare i macedoni di destra e sinistra se non indirizzare le tensioni contro la comunità albanese, si chiedono in molti. E la dietrologia sui legami e gli accordi tra stato e presunti terroristi, sul tributo di sangue pagato dal paese, galoppa.

Ma c’è anche chi ci crede. Ci crede Goran che pensa al rischio del terrorismo come reale. Ma non si tratta di un terrorismo legato agli attuali network jihadisti o all’ISIS, ma di qualcosa di endogeno, atavico nato tra i villaggi albanesi della Macedonia, “dove tutto è selvaggio”. La sua interpretazione funziona perché la inserisce in un ciclo storico, nel quale i macedoni sono vittime sacrificali di tutti i loro vicini più potenti, che nel corso dei secoli li hanno trucidati, espulsi, derubati. Dagli ottomani che li tennero sotto un giogo, ai vicini serbi che si approcciarono alla Macedonia come a una colonia, chiamandola “Serbia del sud”, ai greci che ripulirono la Macedonia egea della popolazione slava. Questa si era schierata con i comunisti e ne patì le sorti quando vennero sconfitti, privati anche degli aiuti di Tito che aveva rotto con Stalin, nella guerra civile greca del 1949.

Una storia poco conosciuta all’estero, ma che da molti in Macedonia viene considerata una congiura del silenzio. Goran lavora nei mesi estivi a Ohrid, una cittadina storica patrimonio dell’Unesco che dà il nome a un grande lago confinante con l’Albania. Goran ha vent’anni ed ha una barchetta con cui porta in giro i turisti, ma dice di essere in pensione da settembre a giugno perché non c’è nulla da fare. Allora va a Skopje dove ha una parte della famiglia e vivacchia con qualche lavoretto.

Niždara invece di tempo non ne ha perché nell’ultimo anno ha dedicato ogni momento libero libero dal suo lavoro ai profughi che arrivano attraverso la rotta balcanica. “Anche la mia famiglia, bosgnacca proveniente dal sud della Serbia, ha conosciuto l’esperienza di lasciare le proprie case e ricominciare la propria vita altrove” ama ripetere quando qualcuno le chiede dei motivi che l’anno spinta a impegnarsi con l’Ong che ha contribuito a fondare.

È incinta al sesto mese e durante tutta la gravidanza ha girato per la Macedonia seguendo l’emergenza profughi. Ha portato sua figlia a giocare con i bambini siriani, ha visto il rettore dell’università di Damasco camminare a piedi nel fango e ricorda come le ballerine di un famoso teatro rimasero senza parole quando dissero loro che Palmira era stata distrutta. Era uno dei luoghi dove si erano esibite.

Vlado fa il taxista ma durante gli anni della Jugoslavia ha girato la Federazione in lungo e in largo lavorando come camionista. Dovrebbe andare in pensione ma ha bisogno dei soldi e continua a lavorare. Si ricorda dei tempi d’oro di Tito in cui tutto sembrava a portata di mano e gli autobus partivano d’estate alla volta di Ohrid, il mare dei macedoni. “Qui ogni sindacato, ogni fabbrica aveva le sue strutture turistiche e portava i suoi lavoratori in vacanza” racconta. Per fortuna che a dargli soddisfazione oggi c’è un orto, in cui produce pomodori, melanzane, peperoni, così diversi da quelli che si comprano.

Ama anche preparare l’ajvar e il pinđur, specialità a base di peperoni della cucina tipica macedone. Sono le bellezze della vita in Macedonia, dice, le montagne, i monasteri abbarbicati, la generosità della gente. Bisogna godersele, ma senza alzare troppo gli occhi, senza guardare chi sta sopra.