Aval: dalle prigioni di Assad alla Svizzera

Le manifestazioni contro il regime, le torture,
la fuga in Libano, le difficoltà a Beirut e il sogno dell’Europa: storia di un giovane siriano

di Sara Manisera, da Beirut

Aval non è il suo vero nome. Si chiama Mohammed, ma ha scelto lui stesso di cambiarlo.  «Io arrivo dallo Sham – il nome con cui è chiamata Damasco e antica regione a Levante che comprendeva l’area fra Siria, Libano, l’Eufrate, l’Anatolia e l’Egitto (i cosiddetti Bilad ash-Sham, i Paesi di Sham) –  e sai quante civiltà sono passate da questa regione? Non si può ridurre tutto a musulmani e cristiani. Si commette un grosso errore. Io sono nato da una famiglia musulmana, ma sono ateo e nelle mie vene scorre sangue curdo. Ho amici cristiani, ortodossi, alawiti, duodecimani, musulmani e laici e non voglio essere identificato solo come musulmano».

Aval non è un tipo che passa inosservato; i suoi lunghi rasta, i tatuaggi che gli ricoprono il corpo, gli occhi scuri e profondi, le sopracciglia folte gli donano un’aurea misteriosa.

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Ha ventisette anni e vive in Libano da tre anni, a Beirut, dove lavora illegalmente per una radio. Registra tracce musicali e compone musica e ogni volta che ne parla i suoi occhi si illuminano: «Mio padre era un musicista ma non voleva che io seguissi questa strada, perché sa com’è la vita di un musicista».

Aval è un ribelle, controcorrente, alternativo. «A Damasco è raro trovare persone come me, con rasta e tatuaggi». «Perché?», gli chiedo ingenuamente. Si ferma in mezzo alla strada, a Mar Mikhael – la zona festaiola di Beirut – si toglie la maglietta e mi dice sorridendo: «Guarda qui, sulla schiena; le vedi le curve e la forma delle mie spalle? Sono così a causa delle torture che ho subito in carcere».

Aval ha trascorso venticinque giorni in carcere nel 2011 per aver preso parte ad alcune proteste a Damasco.

Lo hanno tenuto appeso al soffitto con mani e piedi legati, picchiandolo e torturandolo per estorcergli altri nomi, di dissidenti, di oppositori come lui, di sognatori di libertà. A cause delle torture ha perso l’udito all’orecchio sinistro e ha le spalle deformate.

Alcune settimane fa, la procura di Parigi ha aperto un’inchiesta contro il regime di Bashar al-Assad accusandolo di crimini contro l’umanità tra il 2011 e il 2013. L’indagine è partita grazie a delle foto scattate da un ex fotografo della polizia militare siriana, trafugate in Europa.

«Sono riuscito ad uscire dal carcere perché la mia famiglia ha pagato, circa 9.000 dollari ma il giorno stesso in cui sono uscito mi hanno detto di lasciare il Paese altrimenti mi avrebbero arrestato di nuovo e probabilmente ucciso. Così sono arrivato in Libano grazie ad alcuni uomini del Free Syrian Army».

Ma anche il paese dei cedri è un’altra prigione.

Secondo le ultime stime dell’Agenzia dell’Onu per i rifugiati, – l’Unhcr – i siriani presenti nel territorio libanese raggiungono quasi 1.2 milioni in uno stato con 4.5 milioni di abitanti.

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Se prima i siriani potevano entrare liberamente in Libano e lavorarci, grazie all’accordo di cooperazione sociale ed economica siglato nel 1991, con lo scoppio della guerra civile  e il conseguente afflusso di rifugiati, il governo libanese ha adottato una serie di misure restrittive volte ad ostacolare la permanenza sul territorio. Inoltre da maggio, il governo libanese ha chiesto all’Unhcr di smettere di registrare i siriani giunti in Libano e ciò significa non poter accedere ai programmi di aiuto dell’organizzazione.

Aval vorrebbe andarsene dal Libano ma con il suo passaporto non ha molta scelta.

«Potrei andare in Sudan, in Venezuela oppure pagare qualcuno e mettermi su una barca. Ho scelto invece di sposare una ragazza svizzera». Aval non è il solo a vivere in questo girone infernale di visti e passaporti che marchia l’essere umano in base alla nazionalità ma lui ha trovato la sua Beatrice, che lo sta accompagnando verso un nuovo paradiso, la Svizzera.