A Milano il mio primo incontro con un campo rom fu con quello di Triboniano, cresciuto a dismisura, insediamento abusivo dopo insediamento abusivo. Fu poi la volta della casa occupata di via Adda e dopo del campo abusivo di Cascina Burrona.
Di Massimo Conte, Codici | Agenzia di ricerca sociale
Foto di Luca Meola
Prima di Triboniano ero già stato ospite delle baracchine agricole dalle parti di Famagosta, dove ragazzi marocchini avevano costruito il loro piccolo villaggio. All’interno della ex Richard Ginori ricordo una casa in legno con un piccolo recinto e i vasi di gerani alla finestra. Viliku mi portò a bere il caffè nella sua casa ricavata in un tubo di scolmo all’altezza dell’Idroscalo.
Erano tutte case. Chi aveva trasformato un capanno per gli attrezzi nella propria casa sapeva che era una sistemazione precaria, destinata a durare poco. Bastava l’assenza di qualche giorno per trovarla occupata da qualcun altro. Bastava una candela lasciata accesa per trovarla in fiamme. Bastava una visita della Polizia municipale per veder arrivare le ruspe.
Quando entro in un campo nomadi mi colpisce che la precarietà è fatta per durare. A Roma, a Bologna, a Mantova, a Milano è l’istituzione ad aver creato e alimentato luoghi che sono per loro natura luoghi di segregazione e marginalizzazione. Ma, facendolo, ha dato vita a spazi abitativi che, proprio perché tali, sono così difficili da chiudere e da superare. I processi sociali che li hanno creati e alimentati, sono gli stessi processi sociali che oggi costringono le persone che li vivono all’assenza di alternative credibili e percorribili. È uno dei risultati paradossali di decenni di un mix di assistenzialismo e di disprezzo.
La precarietà è fatta per durare anche perché questi spazi del disprezzo e dell’esclusione sono diventati casa per qualcuno. Una casa che ha messo radici profonde, fatte d’investimenti economici, simbolici, affettivi. Una casa in cui ci sono state gioie, dolori. Si sono celebrate nascite e si è vestito l’abito del lutto.
La casa di Marina è nel campo di via Idro, un campo creato quasi trent’anni fa. È il pomeriggio di una giornata luminosa, piena di un sole d’ottobre che scalda ancora parecchio. Siamo accolti all’ingresso della piazzola da Bimba, un cane da guardia in formato mignon.
“Bimba me l’hanno regalata che aveva due mesi e mezzo ed era un po’ malata, ma con un po’ di coccole e un po’ di cure ce l’abbiamo già da undici anni. Ha l’età delle mie bambine più piccole”, mi racconta Marina. “Oltre a Bimba c’è Birilla. Birilla ce l’ho già da diciassette anni, lei è un incrocio di un chihuahua, ma sembra un maialino, l’ho viziata troppo. Se in questi centri non fanno entrare i miei i cani io non ci vado, fanno parte della famiglia”.
Marina e la sua famiglia stanno aspettando che arrivi il 3 novembre. Entro la mattina del 3 devono avere abbandonato la propria casa e il campo di Via Idro che la giunta milanese ha deciso di chiudere con una delibera del 17 agosto. Per loro potrebbero aprirsi le porte di un Centro di autonomia abitativa o di altre soluzioni di emergenza.
La loro casa è un vecchio container che hanno comprato, anche con l’aiuto di amici non rom, e che si sono sistemati un po’ per volta.
“Ventisei anni fa, quando siamo venuti, il Comune ci ha assegnato una piazzola. Io sono arrivata che non c’era acqua. Eravamo senza luce, solo con una roulotte piccolissima. Abbiamo trovato l’occasione di questo container che era conciatissimo e che nessuno avrebbe mai comprato. Noi lo abbiamo aggiustato, manca ancora un pezzettino da sistemare, un locale che io uso come lavanderia. Non ci hanno ancora risposto su che fine faranno le nostre case”.
Tutto quello che c’è nella casa è stato comprato da loro o recuperato da amici. Oppure, costruito da Lisse, il marito di Marina.
“Questa è la nostra camera con il letto bellissimo fatto a mano da mio marito. Mio marito soffre di cefalea a grappolo e a furia di medicine da prendere gli è venuta la gastrite e un reflusso gastrico che la notte lo faceva soffrire. Noi dormivano su delle brandine che ci erano state regalate, ma il medico diceva che doveva dormire sollevato. Così ha deciso di farsi un letto che potesse andare bene per lui. C’è questa ditta che fa un favore a noi dandoci questi bancali rotti che usiamo per la stufa e a loro facciamo un favore perché così non hanno tutti questi bancali rotti in giro. Lui li ha portati a casa, pezzo per pezzo, e quando ne ha avuti abbastanza ha costruito il letto. Poi voleva fare un armadio per le bambine e ha fatto una scaffalatura per i pupazzetti delle bambine. Adesso ho cominciato a togliere i pupazzetti e a metterli via perché c’è sempre questa paura del giorno 3 novembre in cui dovremo andare via tutti e perderemo tutto”.
Mettere via. Preparare le scatole. Cominciare a smontare l’arredamento. Immaginare dove mettere le proprie cose. Sono gesti familiari per chi di noi ha dovuto prepararsi a un trasloco. Una casa cresce con chi la abita, si riempie di oggetti il cui valore sta solo parzialmente nella loro funzione. Lo spazio interno di una casa si riempie di memoria, di storia. Ogni oggetto è una piccola parte della nostra identità. Ecco perché rinunciarvi è così difficile.
“Circa un anno e mezzo volevamo già andare via. Il mio pezzo qua era bellissimo, avevamo tante piante di rose e piante da frutto. Avevamo anche un piccolo pollaio, avevo le mie oche, avevamo messo su un orto con tutte le verdure. Avevo preparato le bambine dicendo che avremmo lasciato qui e avremmo cambiato casa, che saremmo andati in una struttura come tutte le loro compagne di scuola, che le avrei portate ai giardinetti, le avrei portate in bicicletta, che poi avrebbero anche invitate le loro compagne a casa. Le avevo già convinte le bambine. Loro non si lamentavano, non vedevano proprio l’ora di andare in questa casa. Ora sono sicura che resterebbero male. Se ne stanno un po’ accorgendo da sole perché ho cominciato a mettere via alcuni giochi loro, alcuni libri loro dell’elementari. Un’amica mi ha dato un po’ di spazio nel suo box per mettere le cose”.
Romina ed Elisa sono gemelle e vanno in prima media.
La migliore amica di Romina si chiama Maddalena. “Maddalena è la mia amica preferita. È bravissima a scuola. In classe parliamo troppo spesso e ci hanno divise. Sai, parliamo dei compiti, delle risposte giuste da dare, dei giochi che abbiamo fatto. Cambio idea troppo spesso su quello che vorrei fare: una volta il poliziotto, una volta la cantante. Ma ora non lo so. Non so neanche cosa farò alla scuola superiore, anzi non so nemmeno dov’è la scuola superiore”. Le chiedo di parlarmi della sua casa, di raccontarmela. “La cosa che mi piace di più della mia casa è la mia camera. C’è la mia cuccetta, il letto a castello. La mia mamma mi ha sempre detto che noi la chiamiamo così, la cuccetta. Mi piace la mia scrivania e i miei pupazzi che ci sono qua dentro. Qui sullo scaffale. Questi che sono rimasti sono quelli che mi piacciono di più”.
Elisa, invece, è amica di tutte perché a lei piace stare bene con tutti i suoi compagni di classe. “Io ho tante cose in mente, ma non so ancora cosa fare. Il dottore, ecco il dottore”. Elisa ha le idee chiare su cosa va e cosa non va nel vivere in un campo e mentre mi parla guarda un po’ me, un po’ il mio registratore e un po’ la sua mamma. “Di brutto ci sono tante cose, per esempio sentiamo sempre urla e c’è molta confusione. Il bello è che giochiamo fuori. Passiamo tanto tempo fuori, fino alle sette. Poi torniamo a casa”. Marina si intromette: “Poi entrate in casa, Elisa. C’è una bella differenza tra tornare ed entrare”.
Marina accompagna ancora a scuola Elisa e Romina. “Perché, a parte tutto, qua nel tratto di Via Idro si ha paura. Anche se ci abitiamo noi si ha paura perché passa tanta gente e non mi fiderei a lasciare la bambine da sole a fare l’ultimo tratto. Prima veniva il pullman per i bambini. Fino a cinque anni fa arriva all’inizio di via Idro e prendeva tutti i bambini. All’inizio questa cosa la faceva ancora qualcuno del campo. C’erano tre furgoncini che avevano la convenzione con il Comune. Poi non c’è stato più niente”.
Prepararsi alla chiusura del campo significa anche preparare Elisa e Romina a cambiare la propria vita, a rinunciare alla propria quotidianità. Una quotidianità così rassicurante quando si è ancora piccoli.
Marina mi racconta. “Elisa dice guarda mamma che io nei centri non ci voglio andare. Io le dico, allora Elisa non ci voglio andare non esiste. O si va nei centri o si va in mezzo a una strada. Ma lei mi risponde io preferisco andare in mezzo a una strada. Elisa, in mezzo a una strada significa non avere acqua calda, non lavarti, non pulirti”.
Con Lisse riprendiamo a parlare del suo letto.
“L’ho fatto tutto io con i bancali, mi hanno detto che adesso va di moda. L’ho fatto così, ogni tanto mi arrivano questi momenti e a me piace lavorare con il legno. Questi arriveranno con le ruspe e butteranno giù tutto. Adesso non so bene come funzionerà. So che ci arriverà un’altra lettera, magari la prossima settimana. Sicuramente io non rispetterò la data del 3. Perché se mi mandano alla Casa della Carità non ci vado e nei container non ci voglio andare. Portare le mie bambine lì? No. Perché li non sei autonomo, nel senso che ti danno questo container e ci devi vivere in cinque persone. Questa è la mia casa. Lì dentro non ci riesco a vivere. Non ho niente dentro lì. Abbiamo pensato a prendere una casa in affitto, ma non ce la facciamo. Con quel poco che abbiamo non ce la facciamo: saranno 4 o 500 euro al massimo al mese e non ce la faccio. Se avessi uno stipendio, magari una casetta piccola la prenderemmo”.
Casa e lavoro, nella vita di ognuno di noi, sono elementi inseparabili. A un lavoro precario corrispondono forme precarie e instabili di casa, in un ciclo che può essere rotto solo affrontandolo in modo complessivo. Multidimensionale, come si dice oggi nei servizi sociali.
La stabilità che rende possibile un progetto di vita, un progetto di famiglia, richiede che le due cose vadano avanti insieme. Lo sappiamo nella nostra vita, dovrebbero saperlo anche le politiche.
Uscendo dal campo guardo ancora una volta le pozze d’acqua, le piante d’ambrosia, i fili elettrici volanti, i cumuli di oggetti abbandonati. È questo il panorama che circonda la casa di Marina e Lisse. Mi dico che non vorrei mai vivere qua e non ci vorrei crescere le mie figlie. Mi dico anche che ci vuole molta forza per farlo senza rinunciare alla propria dignità. Una dignità che le istituzioni dovrebbero tutelare e coltivare perché i cambiamenti veri sono generati dal rispetto delle vite che vorremmo accompagnare a cambiare.