Gabriella Grasso ci spiega cosa sia la scrittura autobiografica
Si è appassionata e grazie agli studi alla Lua, Libera Università dell’Autobiografia, ora inizia il suo percorso di formatrice. Il 7 novembre l’incontro più prossimo, “Ricordi in movimento – Laboratorio per anime migranti”, dedicato a chiunque abbia affrontato un percorso migratorio, sia all’interno del territorio italiano, sia da un Paese straniero verso l’Italia.
Gabriella Grasso racconta a Q Code Mag
Come hai scoperto la scrittura autobiografica?
«Non credo sia un caso che quando ho sentito parlare per la prima volta della Lua, la Libera Università dell’Autobiografia che si trova ad Anghiari, vicino Arezzo, mi sia subito interessata alle sue attività: ho tenuto un diario sin da bambina e poi, da adulta, ho fatto delle parole una professione diventando giornalista. Due anni fa ho deciso di iscrivermi al primo anno di formazione della Lua, che è stata fondata nel 1998 dal giornalista Saverio Tutino e da Duccio Demetrio, docente di Filosofia dell’Educazione all’Università di Milano- Bicocca e il più profondo conoscitore, in Italia, del metodo autobiografico, sul quale ha scritto diversi volumi».
Come è strutturato il corso di studi?
«Il primo percorso di formazione, che si chiama Graphein, è incentrato sulla scrittura di sé. Si inizia subito ad “arare la memoria”, ovvero si viene sollecitati attraverso esercizi specifici al fine di far emergere ricordi anche lontani. Il risultato è straordinario. Molti pensano di non ricordare molto della propria vita, invece basta la sollecitazione giusta per far affiorare un’immagine, un luogo, un sapore, un odore legati a un periodo della propria esistenza. Tornano alla luce episodi, persone, conversazioni. Scriverne aiuta a dargli consistenza, profondità. Il risultato è che il percorso di vita che hai compiuto ti si materializza piano piano sotto gli occhi ed è un occasione per ripensarlo, capirlo e, perché no, anche farci i conti. Certamente non tutte le scelte che abbiamo fatto e le strade che abbiamo imboccato sono state, con il senno di poi, le più adatte a noi: ma ripensarle, riviverle, aiuta a metterle in una prospettiva nuova, a guardarle più da lontano, a darvi un senso. E un valore. Il primo anno alla Lua si è concluso con la scrittura della mia autobiografia, un’impresa sicuramente impegnativa, ma piena di soddisfazioni. Ha significato ripercorrere la mia strada e trovare il filo, invisibile agli occhi, che avevo seguito».
Che titolo hai dato alla tua autobiografia?
«“Una vita altrove” perché scrivendola mi sono resa conto di come la ricerca di un altrove, la tensione verso un certo nomadismo e la curiosità verso ciò che è diverso da me, abbiano sempre caratterizzato le mie scelte. Sono cresciuta in Sicilia, ho vissuto a Firenze, poi a Roma, infine a Milano. Ho anche viaggiato parecchio, ho studiato tre lingue. I temi dello spostamento, della migrazione, del viaggio, dello spaesamento, mi sono familiari e forse non è un caso nemmeno che, occupandomi di editoria, negli ultimi anni abbia focalizzato la mia attenzione su quella letteratura che possiamo definire “della migrazione”: che si occupa cioè di narrare la separazione dalla terra madre, il viaggio verso un altrove più o meno lontano, la difficoltà di integrarsi in un ambiente culturale diverso. Quando ho deciso di proseguire il percorso di studi in scrittura autobiografica, frequentando alla Lua il secondo anno Morphosis/Mnemon, che ha tra gli obiettivi quello di formare conduttori di laboratori di scrittura autobiografica, ho subito avuto chiaro quale fossero le persone a cui volevo rivolgermi: i migranti. Stranieri di ogni provenienza ma anche italiani che, come me, hanno lasciato la loro regione per cercare lavoro (e forse se stessi) altrove».
E così hai ideato un laboratorio…
«Sì e l’ho chiamato “Ricordi in movimento – Laboratorio di scrittura autobiografica per anime migranti”. È rivolto a chiunque abbia affrontato un percorso migratorio: all’interno del territorio italiano o da un Paese straniero verso l’Italia. Naturalmente un laboratorio articolato in 4, 5 o 6 incontri non può essere finalizzato alla scrittura di un’intera autobiografia, ma è un’esperienza attraverso la quale si può iniziare a portare alla luce e valorizzare frammenti di vita. A volte si parte da qualcosa di minimo e di apparentemente insignificante, per poi scoprire che ogni tassello di ogni esistenza (anche quelle che sembrano più “anonime”) ha un valore e una dignità che è importante riconoscere».
Perché pensi che questo laboratorio possa essere interessante per i migranti?
«La mia personale esperienza di vita e l’incontro con persone che hanno compiuto un percorso migratorio ben più radicale del mio mi hanno mostrato che chi ha affrontato uno spostamento, un passaggio più o meno radicale dal luogo di nascita e di formazione a un altrove nuovo e sconosciuto, prova spesso una sorta di sdoppiamento identitario: si sente diviso tra il “prima” (il luogo e le esperienze da cui è partito) e il “dopo” (il luogo e le esperienze a cui è arrivato). Ma il “prima” e il “dopo” fanno parte, in realtà, dello stesso percorso e insieme contribuiscono a costruire un’identità sfaccettata, ricca e anche unica. Perché una sola è la persona che ha fatto quel lungo cammino e unico è il suo valore. La scrittura autobiografica può aiutare a mettere in evidenza come le diverse strade compiute compongano una singola storia, la cui bellezza sta proprio nell’unicità e nella ricchezza delle esperienze vissute».
Cosa succede all’interno di un laboratorio?
«Innanzitutto si lavora in gruppo: e se questa è sempre un’occasione incredibile di confronto e scambio, lo è ancora di più, a mio avviso, se il gruppo è culturalmente eterogeneo. Durante il laboratorio vengono date delle sollecitazioni di scrittura che possono partire da un brano letterario, una musica, una fotografia: poi ogni partecipante scrive il suo testo. Alla fine si apre uno spazio per la condivisione. Non c’è naturalmente l’obbligo di leggere al gruppo ciò che si è prodotto: si può anche scegliere di non farlo o di limitarsi a qualche frase. Ma quando si entra nello spazio della condivisione avvengono delle piccole magie: da una parte si incontra il mondo dell’altro, si accorciano le distanze, si inizia a comprendere la diversità. Dall’altra si scoprono affinità impreviste, ci si rispecchia nel racconto di qualcuno che, all’apparenza, ci sembrava diversissimo da noi. Perché siamo tutti esseri umani che provano le stesse emozioni e perché, in particolare, l’abbandono del proprio luogo di origine, che sia la Sicilia o il Mali, provoca in tutti un trauma, piccolo o grande che sia, di cui attraverso la scrittura ci si può prendere cura. Lavorando insieme e confrontando le esperienze credo si possa giungere alla scoperta che non importa dove si viveva “prima” e dove si arrivati “dopo”, ciò che conta è l’unicità della propria identità e la bellezza della propria esistenza e delle esperienze fatte. Perché, come dice la scrittrice Taiye Selasi: «My experience is where I’m from»: l’identità di ciascuno di noi non è legata solo al nostro luogo di origine, ma alle esperienze di vita che abbiamo fatto. Tenerne memoria è un modo per fortificare la nostra identità».
Non c’è il rischio che possa apparire come una specie di ‘terapia’ o che scrivere venga vissuto come un esercizio letterario, quindi difficile da affrontare?
«È fondamentale essere chiari: un laboratorio di scrittura autobiografica non ha finalità letterarie (non è un corso di scrittura creativa, non insegna alcuna metodologia narrativa) né è terapia di gruppo. Chi conduce non vuole insegnare niente, né vuole “curare”. Offre solo degli spunti per riflettere su se stessi e porsi in ascolto dell’altro. C’è un patto che viene siglato all’inizio di ogni laboratorio: ci si impegna a sospendere il giudizio, ad ascoltare l’altro con rispetto e a tenere per sé ciò che si ascolta. Per quanto riguarda la difficoltà, è importante dire che non occorre alcuna capacità particolare, anzi è incredibile come persone che si sentono lontane dalla scrittura – perché non l’hanno mai praticata o perché hanno compiuto un percorso di studi limitato – possano scoprire, con una soddisfazione immensa, di essere in grado di trovare le parole giuste, le loro parole, per raccontarsi. È per questo che si tratta di un’esperienza che chiunque può fare, anche se l’italiano non è la sua lingua madre. Penso, tra l’altro, che riuscire a raccontare di sé nella lingua di adozione possa aiutare a rafforzare il legame con quella lingua e, quindi, con la cultura che rappresenta, facilitando il processo interiore di integrazione. Questo non vuol dire che nelle scritture che si fanno non si possano usare, qualora se ne sentisse l’esigenza, parole nella propria lingua madre: ci saranno l’opportunità e lo spazio, qualora lo si voglia, di spiegarle oralmente».
Cosa rappresenta per te questo laboratorio?
«Ogni laboratorio è un percorso di scoperta e di crescita per chi lo tiene tanto quanto lo è per i partecipanti. Questo vale per me in particolare, che sono agli inizi di questo “viaggio”. È uno dei motivi per cui al momento propongo il laboratorio gratuitamente, chiedendo solo un rimborso spese per l’acquisto di materiali utili ai lavori. Il primo si terrà in novembre, per informazioni si può cercare su Facebook “Ricordi in movimento – Laboratorio per anime migranti”».