di Christian Elia
foto di Muhammad Lila/ABC
Francesca Recchia è una scrittrice e ricercatrice indipendente, che ha lavorato in differenti parti del mondo, tra cui India, Pakistan, Afghanistan, Iraq e Palestina.
Postdoctoral Research Fellow alla Bartlett School of Planning, University College of London e Research Associate presso il Centre of South Asian Studies della SOAS, a Londra, da anni ha eletto Kabul come casa e centro della sua ricerca. Quella dell’arte e dell’umanità, dove tutto sembra perduto. Adesso è al lavoro per organizzare nella capitale afgana un festival di cultura e arti visive.
Da dove arriva l’idea del festival?
Il festival è pensato e sostenuto da Moby Media Group, una società di comunicazione afgana. Quando Saad Mosheni, il CEO di Moby, e l’ambasciatore afgano in Pakistan, Janan Mosazai, sono tornati a Kabul dopo essere stati ospiti al festival di letteratura Lahore, in Pakistan, hanno pensato che sarebbe stato bello fare la stessa cosa a Kabul. Più o meno due anni fa, avevo avuto la stessa idea, immaginando un piccolo festival di letteratura a Kabul, ma per il deteriorarsi delle condizioni di sicurezza e per i fondi promessi e mai arrivati ero stata costretta a malincuore a mettere da parte il progetto. Tornato da Lahore pieno di entusiasmo, Saad Mosheni mi ha chiesto di dirigere il festival, più grande e ambizioso di quanto non avessi sperato: all’improvviso un’idea che sembrava impossibile sta pian piano prendendo vita. Stiamo lavorando per la primavera prossima.
Come sarà organizzato il festival?
Il festival ha una prospettiva regionale con artisti e intellettuali che si ritrovano a Kabul da Afghanistan, Pakistan e India. Ci sarà una mostra di arti visive, un incontro di poesia, un concerto, una sfilata di moda, una piccola fiera gastronomica e sette tavole rotonde su temi di attualità legati alla geopolitica e alla cultura regionale. Dal cricket all’arte di raccontare le storie, dal ruolo dei media nel futuro della regione all’Afghanistan e al suo impatto sulla stabilità regionale, le culture orali e il rischio della scomparsa delle lingue autoctone, il senso del confine e l’eredità culturale dei Mughal come patrimonio condiviso. Stiamo pensando a un appuntamento annuale. Qualcosa di positivo che la gente possa aspettare. Lavorando su scala regionale, quest’anno guardiamo a est, e nelle edizioni successive speriamo di ampliare il panorama includendo Iran, Uzbekistan, Tagikistan e l’Asia Centrale.
Come inizia questo percorso?
E’ stato quattro o cinque anni fa. Dovevo scrivere un articolo per Domus sulla creatività a Kabul. Quella è stata l’occasione che aspettavo da anni: non volevo arrivare in Afghanistan senza una ragione, da turista. L’idea di quell’articolo era stata abbastanza una scommessa da pazzi, in molti – inclusi i miei amici – pensavano si sarebbe trattato di una caccia al tesoro senza possibilità. Con il fotografo Lorenzo Tugnoli, invece, ci siamo messi in cerca e ci si è aperto un mondo: abbiamo trovato molto di più di quello che è finito nel reportage. Ci siamo convinti a scrivere un libro, The Little Book of Kabul: storie brevi e foto, una sorta di ritratto di Kabul attraverso il racconto della vita quotidiana degli artisti che lavoravano in città. Avevamo messo in conto un paio di mesi di lavoro e invece per completare il libro ci sono voluti più di due anni e non potevamo sapere che avremmo costruito una sorta di ritratto a tempo: la quotidianità raccontata nel Little Book non esiste più, molto è cambiato, quel momento della città e della comunità artistica adesso è svanito.
Quanto e come è cambiata Kabul dal tuo arrivo?
È molto diversa, ma anche simile. Sono tre anni che vivo qui e più passa il tempo e più so di non sapere. È un paese così complesso e stratificato, come una cipolla: non arrivi mai al cuore; uno strato dopo l’altro, il livello di complicazione sembra crescere in modo esponenziale. In questo è uguale ad allora e a come me l’aspettavo, la curiosità è la stessa: inappagata.
Eppure Kabul è cambiata tanto. In positivo e in negativo. Ci sono piccole cose che prima non si vedevano: ci sono più ragazze per strada, le maniche delle camicie che indossano si sono accorciate, la sperimentazione con i vestiti è più audace adesso di quattro anni fa. Cose belle sicuramente, anche se l’ultimo anno è stato proprio difficile, di grande demoralizzazione. Tante speranze, tante aspettative di cambiamento, che però non sono realizzate.
Un esempio: un’amica si è sposata da poco. Nonostante il suo naturale ottimismo prima delle nozze era molto depressa, temeva di non arrivare neanche viva al matrimonio per l’instabilità con la quale è costretta – come tutti – a convivere in Afghanistan. E parliamo di una persona estremamente positiva, innamorata del paese, senza nessun interesse ad andare via. Piccoli, pesanti segni di una disillusione che si diffonde nel paese e che non percepivi quattro anni fa. C’era più assuefazione magari. C’è stato un momento di grande entusiasmo prima delle elezioni, sembrava davvero che si sarebbero potute cambiare le cose. Ora, più di un anno dopo la formazione del governo, c’è un’amarezza tangibile rispetto alle molte promesse non mantenute.
Come sei arrivata qui?
Sono più di dieci anni che lavoro in paesi in conflitto. Mi occupo fondamentalmente di arte e produzione culturale. Palestina, Kurdistan (dove ho insegnato all’università), Kashmir. E’ difficile dire come le cose siano accadute. Molto probabilmente è tutto dipeso dal fatto che sono un animale politico, incuriosita dal fatto che non riesco a capire la violenza. E’ una dimensione dell’umano che mi sfugge, non ho strumenti per capirla, allora vivo questi contesti con quelli che sono i miei di strumenti: l’arte e la produzione culturale. E’ come se avessi individuato una strada tortuosa per tentare di capire quello che non capisco, usando le coordinate di quello che capisco. Attraverso l’arte riesco ad avvicinarmi a delle realtà altrimenti oscure. Lo spazio di possibilità che apre la cultura è quello che mi affascina e mi aiuta a capire la dimensione politica di paesi così.
In questi anni, che idea ti sei fatta del rapporto degli afgani con l’arte? Qual è il linguaggio prediletto?
La poesia, sicuro. E’ profondamente legata alla cultura afgana. Ne colgono l’anima. E questo li unisce. Per l’incontro di poesia che sto pensando per il festival immagino un evento aperto al pubblico, che altro non sarà che la trasposizione pubblica di quello che spesso succede nei salotti di casa. Da sempre. Si ritrovano a commentare amore e morte, politica e relazioni, in versi. E da familiare e privato diventa atto pubblico. Spero di riuscire a coinvolgere poeti che rappresentino tutte le anime di questo paese: Pashto, Balochi, Uzbeki, Farsi. Uomini e donne, senza classi e etnie. Per noi, spesso, la poesia è la noia mortale. Da imparare a memoria. Qui è espressione più immediata, del quotidiano.
Contesti diversi tra loro. Similitudini?
Ci sono due modi di dirlo: uno lo prendo in prestito da Lorenzo Tugnoli, che usa una parola che non amo, lui ama parlare dell’‘universalità’ di una certa dimensione artistica. Una delle cose che lega il mio lavoro è che gli artisti a Ramallah, a New York o a Kabul hanno lo stesso desiderio: esprimere la loro creatività. Uno dei fili conduttori è questo, e mi affascina vedere come lo fanno in luoghi dove sembra non ci possa essere altro se non la mera sopravvivenza. L’altro modo di spiegarlo è che, come dico spesso, qui, dove si vive giorno per giorno, il desiderio di produrre cultura e la dimensione artistica garantiscono un pezzo di futuro. Ed è una cosa enorme. Spazio di possibilità, questo mi interessa, per immaginare il futuro. Ed è prezioso per tutti noi. Casting per le modelle, misure per i quadri e organizzazioni delle esposizioni mentre viene bombardato l’ospedale di Kunduz: a volte mi chiedo che senso ha quello che faccio. L’urgenza è la guerra. Ma poi ci ripenso: la dimensione culturale non è urgente nell’economia di guerra, ma è necessaria per presidiare uno spazio di umanità.