Il ventennale dell’accordo di Dayton
in una Bosnia Erzegovina delusa
di Francesca Rolandi
Venti anni fa, mentre a Dayton si finalizzava il trattato di pace che avrebbe dovuto porre fine alla guerra in Bosnia Erzegovina durata quasi quattro anni, il gruppo sloveno Laibach teneva due concerti a Sarajevo, facendo riassaporare a molti il gusto della normalità.
Fedeli alla loro iconografia e al loro uso delle provocazioni, tra le quali emergeva la volontà di mettere alla berlina il totalitarismo i concerti furono scevri da qualsiasi retorica nella quale sarebbe stato facile cadere.
Durante la conferenza stampa il frontman del gruppo giocò con lo slogan che aveva battezzato quella serie di concerti, NSK (Neue Slowenische Kunst) State, rifacendosi al controverso collettivo sloveno nato negli anni ’80, e ne proclamò Sarajevo parte, distribuendo passaporti ai suoi cittadini.
Un’ironia graffiante con cui si decostruiva la tragedia che aveva visto un prolungarsi della guerra per la difficoltà di definire appartenenze nazionali e statuali. Appartenenze nazionali e statuali che, a distanza di due decenni, sono tutt’altro che risolte.
Il ventennale del trattato di Dayton è trascorso in Bosnia Erzegovina al ribasso, in un clima di sfiducia generale segnato più dall’eco degli attentati di Parigi e dalle preoccupazioni per un sospetto attentato a sfondo fondamentalismo islamico nel paese, che dalla ricorrenza di un avvenimento chiave nella storia recente del Paese.
Il 20 novembre si è tenuta a Banjaluka la conferenza Vent’anni dal trattato di pace – prospettive organizzata dal quotidiano locale Nezavisne novine, che ha ospitato una violenta discussione tra il membro bosgnacco della presidenza tripartita Bakir Izetbegović e il presidente del consiglio dei ministri della Bosnia Erzegovina Denis Zvizdić da una parte e il presidente della Republika Srpska Milorad Dodik dall’altra.
Allo scontro sono andate due interpretazioni diametralmente opposte dell’accordo, ma unite nel sottolinearne il mal funzionamento: secondo i membri bosgnacchi l’accordo sarebbe stato attuato parzialmente e avrebbe creato una struttura non funzionante per i veti posti dall’entità serba; secondo il leader serbo, in genere un difensore dell’accordo proprio per la sua estrema frammentazione, il suo peccato originale sarebbe stato quello di avere mantenuto in vita la struttura federale.
A margine, Dragan Čović, presidente della Presidenza della Bosnia Erzegovina ma esponente dei croati di Bosnia, ha sottolineato la necessità di una maggiore rappresentanza di questi ultimi, adombrando la possibilità della creazione di una terza entità croata.
Posto alla base della Bosnia Erzegovina odierna, l’accordo di Dayton da una parte ha improntato l’attuale cornice giuridica del paese, la cui disfunzionalità è stata ampiamente riconosciuta, come il suo carattere discriminatorio a partire dalla sentenza Sejdic-Finzi emessa dalla Corte europea per i diritti dell’uomo; dall’altra contiene parti tuttora non applicate come l’Annesso 7, riguardante la restituzione delle proprietà ai profughi, che in molti casi è ancora controversa.
Della riforma della costituzione nata dall’accordo di Dayton (Annesso 4) si discute da anni. L’iniziativa dovrebbe partire dal parlamento della Bosnia Erzegovina, che però difficilmente troverà un accordo, dal momento che le tre maggiori comunità spingono in direzioni differenti.
Non è casuale che in Bosnia Erzegovina dalla fine del conflitto la maggior parte delle riforme siano state portate avanti su pressione della comunità internazionale attraverso la figura dell’Alto rappresentante e si siano in genere mosse verso una maggiore centralizzazione del paese.
Intanto, un bilancio dell’efficacia dell’accordo di Dayton trova ancora una volta il paese diviso. Da una parte la leadership politica e il mondo intellettuale della Federazione sono compatti nell’accusarlo di essere responsabile della situazione di stallo attuale e di aver addirittura perpetuato la guerra con altri mezzi o di avere impedito, come ha ricordato il giurista Zdravko Grebo a Radio Slobodna Evropa, con tutte le sue quote etniche, lo sviluppo di un’identità basata su un’idea di cittadinanza.
Nell’altra entità invece non è raro imbattersi in chi, come il presidente dell’Accademia delle Scienze e delle Arti di Banja Luka, Rajko Kuzmanović, definisce Dayton come uno dei più riusciti accordi di pace della storia.
La percezione dell’accordo si riflette anche nelle commemorazioni pubbliche. Il giorno della sua firma è festivo nella Republika Srpska, ma non nella Federazione.
Pur in un bilancio in gran parte negativo, esisterebbero comunque dei flebili segnali positivi, tra i quali spicca la riforma delle forze armate che si troverebbe sulla buona strada in direzione di uno spostamento delle competenze dal livello delle entità a quello federale, muovendosi verso la creazione di un esercito unico bosniaco, come ha spiegato l’analista sarajevese Đuro Kozar a Deutsche Welle.
Ma l’impressione è che poco di questi dibattiti arrivi alla popolazione, impegnata nella lotta per la sopravvivenza in una Bosnia Erzegovina sempre più flagellata dalla povertà e dalla mancanza di prospettive. Dove, tuttavia, in molti casi, quello che emerge viene interpretato nell’ottica di un equilibrio tra le divisioni nazionali, tra “noi” e “loro”, anziché nell’ottica di una sostenibilità amministrativa e legislativa. A prima vista, potrebbe sembrare una questione assolutamente tecnica, ma in realtà si tratta di una questione profondamente politica, in grado di legittimare o meno il Paese ad esistere anche fuori dalla carta.