Ideologia e propagada nell’istruzione, il libro di Nurit Peled – Elhanan
di Christian Elia
“In Israele, i testi scolastici sono destinati a ragazzi che a diciotto anni si arruolano per il servizio militare obbligatorio per attuare la politica israeliana di occupazione dei territori palestinesi. Questo studio non intende descrivere l’istruzione del Paese nel suo complesso, ma concentrarsi sulla particolare questione di come i libri di testo rappresentino la Palestina e i palestinesi”.
Questa la prefazione di La Palestina nei testi scolastici israeliani, edito da GruppoAbele. Finalmente disponibile in italiano. E a scriverlo non è stato un palestinese, né un’attivista internazionale, ma Nurit Peled-Elhanan, docente israeliana alla Facoltà di Scienze Linguistiche dell’Università ebraica di Gerusalemme. Premio Sacharov nel 2001, assegnato dal Parlamento Europeo, tra i fondatori del Tribunale Russell sulla Palestina, membro dell’associazione Bereaved Parents for Peace.
Nel libro vengono analizzati manuali di storia, geografia ed educazione civica ufficiali, nel senso di quelli che ricevono il via libera delle autorità israeliane e possono quindi diventare testi scolastici. Le conclusioni dell’autrice sono sconfortanti: “Le principali questioni indagate sono state quella della rappresentazione verbale e visiva dei palestinesi e della loro esistenza e quella dei mezzi visivi e discorsivi che legittimano l’esclusione, la discriminazione e persino l’uccisione dei palestinesi, cittadini e non”.
Nonostante dei tentativi, in particolare seguiti agli Accordi di Oslo della metà degli anni Novanta, “i principali testi scolastici israeliani odierni qui analizzati presentano un quadro semplicistico e dunque parziale, che ritrae solo la prospettiva di una parte in causa. Il messaggio che trasmettono è inequivocabile: la terra di Israele è sempre appartenuta agli ebrei, persino nei duemila anni di assenza collettiva, e dunque deve rimanere ebraica, nonostante le risoluzioni e le leggi internazionali e nonostante il fatto che la metà della popolazione sotto il governo d’Israele sia arabo – musulmana”.
Un quadro disarmante, corroborato da una bibliografia immensa, che non lascia spazio al dubbio della forzatura personale. Una narrazione ‘politica’ della storia non è una novità, e non è certo una specificità israeliana. I testi che Hamas ha adottato nelle scuole che gestisce a Gaza non sono meglio. Ma, come lo stesso governo israeliano tiene a sottolineare, Hamas è un partito armato (per alcuni ‘terrorista’), Israele è l’unica ‘democrazia’ del Medio Oriente, come ama definirsi. E qui che si crea uno iato.
Perché generazioni intere che, a differenza dei loro nonni, che se nati in Palestina avevano addirittura un passato comune con gli arabi, e ne parlavano la lingua, stanno crescendo preparati all’esclusione. Nutriti di stereotipi razzisti, di un racconto che non prevede alcuna forma di riflessione, che evoca miti fondativi escludenti.
Gli ebrei sono stati via, perché scacciati, ma sono tornati. Questa è la loro terra. Devono fare tutto quello che è necessario per difenderla da popoli che non c’entrano nulla con quella terra, come se i palestinesi fossero un’incidente di percorso, un ostacolo, ai quali è stato offerto un futuro che loro hanno rigettato.
Da questi manuali si passa al servizio militare, molto giovani. Ecco che per i ragazzi israeliani l’unico momento di incontro con un coetaneo palestinese è mediato da un fucile, da una divisa, da una grammatica bellica. Quale futuro potrà disegnarsi, date queste coordinate?
Anche quando si accenna a momenti gravi della storia israeliana, come il massacro di civili palestinesi inermi a Deir Yassin nel 1948, la chiave di lettura è volutamente distaccata, come se gli autori dell’eccidio fossero ‘compagni che sbagliano’, e che anzi sono noti per il loro valore e che ‘quella volta, ovviamente senza colpe delle istituzioni, hanno esagerato’.
Nessun dubbio, nessuna zona d’ombra, nessuna concessione alla complessità del reale. Una visione messianica di ritorno alle origini, costi quel che costi, una negazione della complessità del territorio. Cittadini – soldati ai quali si chiede di non pensare in modo complesso. Perché, forse, potrebbero avere dubbi. E un soldato non deve avere dubbi.
Basta guardare, anno dopo anno, in modo doloroso e inesorabile, come i sondaggi dell’opinione pubblica israeliana – operazione militare dopo operazione militare – siano sempre più schiacciati sulla visione bellicista della questione palestinese. Mentre una soluzione diventa, ogni giorno, sempre meno probabile. E che anche quando mai arrivasse, troverà ragazzi cresciuti nella distanza che faranno una gran fatica a vivere oltre la guerra.