di una volontaria impegnata nell’accoglienza dei profughi
in transito per Milano
di Carlotta Dazzi
«La vita è più bella cuando sei tra l’italiani». Inizio volutamente con una frase scritta da un’amica siriana conosciuta al mezzanino che racchiude molto di quel che respiro facendo volontariato all’hub profughi della Stazione Centrale di Milano sotto il cappello del Comune di Milano e Soserm. È di Nur, una giovane e coraggiosa siriana scappata dalle bombe di Damasco a settembre dopo esservi tornata – con una scelta non facile – al termine del suo master universitario a Firenze. Oggi fortunatamente è in salvo in Lussemburgo dopo aver percorso – con mezzi tutt’altro che scontati – la cosiddetta “rotta dei Balcani”.
La sua storia, quel che si è lasciata alle spalle e quel che affronta nella nuova vita sempre con il sorriso, nonostante tutto, me la fanno sentire particolarmente vicina.
Nur come Majid, Mhmad, Aboud, Riad, Eyad… potrei andare avanti riempendo pagine. Sono profughi siriani con cui ho riso, con cui ho parlato a lungo, con cui mi sono commossa sino alle lacrime o con cui, come è successo a Pserimos in Grecia quest’estate, ho vissuto momenti che non dimenticherò mai. Con tutti si è creato un legame forte, luminoso, fraterno.
Con tutti ho capito qualcosa in più della vita, degli orrori della guerra, della tragedia di questo esodo epocale e dell’Europa, cui troppo spesso mi vergogno di appartenere.
La cultura del sostegno, della solidarietà, della dignità umana e del rispetto è quella in cui mi riconosco. In ascolto dei più deboli e per indole portata verso tutto ciò̀ che fa rima con vulnerabilità e fragilità, cerco di essere utile agli altri. Ogni giorno, con consapevolezza e coerenza.
È così che un anno e mezzo fa, stanca di stare solo a guardare e leggere della tragedia dei profughi in transito da Milano, mi sono detta che qualcosa di concreto dovevo e potevo farlo anch’io.
Nella mia città, un popolo in fuga dalla guerra. Nella mia città tanta gente solidale.
La Milano che amo si stava muovendo, mobilitata in stazione Centrale per garantire con molta spontaneità e molto amore a quest’umanità, con dietro di sé solo terra bruciata, un briciolo di serenità dopo un viaggio terribile.
Un giro a volo di rondine sui profili social di chi presidiava il mezzanino nell’emergenza dell’estate degli sbarchi facendo la differenza e ho messo cuore e testa in campo. Andare all’hub profughi, fiore all’occhiello dell’accoglienza italiana grazie anche a un Assessorato alle Politiche Sociali che ci ha messo la faccia, oggi fa parte del mio quotidiano settimanale, senza mi manca quasi un braccio.
Ad avermi profondamente cambiata e rincuorata sono lo stare con questo meraviglioso popolo che è un mix di culture, lingue e tradizioni, il conoscerlo seppur nella drammaticità di un esodo epocale e il toccarne con mano la gratitudine, ma anche il poter condividere quest’esperienza con altri volontari, grazie alla forte partecipazione della città di Milano.
Le persone in transito vanno in Svezia, Germania, Olanda, Danimarca e Norvegia. Quasi sempre ripartono dopo tre o quattro giorni che si concedono per riorganizzarsi nei centri di prima accoglienza.
Poi si rimettono in viaggio con una voglia di vivere unica, spesso verso l’ignoto. Riuscendo, nonostante tutto, a sorridere e a sentire nostalgia di noi.
Esattamente come Nur, che nell’esperanto che ormai un po’ tutti parliamo all’hub scrive: «Mi manca il cioccolato Perugino, mi mancano i campi aperti quelli che ho guardato dalla finestra del treno, mi manca la magia di Venezia, mi manca il calore di Firenze, mi manca i laghi e mi mancano i grandi cuori che ho incontrato a Milano».