Un film racconta la prostituzione in Marocco

Si scrive Much Loved, si legge Much Hated

di Francesca Tomasso

L’attrice Loubna Abidar, protagonista del film Much Loved, Zin Lifik, ha lasciato il Marocco. Il 5 novembre era stata aggredita per le strade di Casablanca: volto tumefatto nelle foto che aveva pubblicato online e la dichiarazione che le cliniche e i medici si erano rifiutati di accoglierla, prima che al commissariato di polizia per sporgere denuncia  le ridessero in faccia, è ora in Francia perché afferma di non voler vivere nella paura. Una vera campagna d’odio quella iniziata a maggio scorso, da quando il film era stato presentato a Cannes. In Marocco la diffusione è stata vietata perché, dicono, il film rappresenta un grave oltraggio ai valori morali, alla donna marocchina e all’immagine del Paese tutto.

Much loved è stato vietato dal Ministero della Comunicazione ma di prostitute in Marocco ce ne sono a migliaia, non serviva certo il film di Ayouch per scoprirlo. Si sapeva anche che ci sono migliaia di sauditi, qatarini, emiri ed europei che ogni anno vanno in Marocco a spendere le vacanze e a fare turismo sessuale, che è anche omosessuale e pedofilo. C’era stato un documentario nel 2013 di France24 che denunciava il turismo sessuale maschile e minorile a Marrakesh e Agadir, non censurato e disponibile su YouTube. Nel 2014, circa 120mila turisti di provenienza saudita, kuwatiana ed emira hanno trascorso le loro vacanze in Marocco, +12% rispetto al 2013, su un totale di 10 milioni di turisti annui da tutto il mondo.

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Il Ministero del Turismo scrive che il 12% del PIL del paese proviene da questo settore, che dà lavoro a circa mezzo milione di persone, i turisti francesi sono i primi per numero, con un gettito di 1,5 miliardi di euro. C’erano stati anche altri film,  Les yeux sec, Mort à vendre e Sur la planche che mostravano, forse in maniera meno violenta, il tema della prostituzione e l’indignazione era stata minore. Così come tutti in Marocco sanno della corruzione e dell’arbitrarietà tra le forze di polizia che sfocia spesso nell’abuso.

Il film non racconta niente di nuovo, e allora lo scandalo dov’è?

In realtà di cose scandalose nel film, ne vengono raccontate due. La prima consiste nel fatto che il Marocco è un paese in cui tutto si può fare, ma niente si può dire. Ayouch, il regista di Much Loved, spazza via questa coltre, apre le porte, le finestre, fa entrare la luce e, come prevedibile, si alza il polverone. A maggio la polizia ha smantellato un giro di prostituzione minorile tra Rabat, la capitale, e Kenitra, città poco distante, che forniva ragazze minorenni a ricchi clienti sauditi. Un locale di Marrakesh, la cui entrata è vietata ai marocchini, fornisce un catalogo con le ragazze “a disposizione” dei clienti del locale, per lo più provenineti dai pesi del Golfo. TelQuel, giornale marocchino sicuramente non sovversivo, dopo l’uscita del film ha intervistato due prostitute marocchine. Raccontano di come la concorrenza sia fortissima, in un mercato fiorente.  

Raccontano anche di come l’uscita del film abbia peggiorato le cose per loro, di come ora vengano apostrofate per strada come«le ragazze di Zin Lifik» e di come le forze dell’ordine abbiano stretto un giro di vite sulla prostituzione, contrastandola e abusando del loro potere, sotto lo slogan di «Sei una della notte, è normale».

Il Marocco si guarda allo specchio ed eccolo che appare lo scandalo, la cosa che fa inorridire: l’immagine che ne esce.

Il Paese guarda la propria immagine riflessa e non si piace, ma soprattutto non si riconosce: scopre di non essere così osservante della religione come credeva, scopre che il neoliberismo non ha portato solo strade nel deserto e investimenti stranieri, ma anche un amore sfrenato per il denaro, la corsa cieca per rincorrerlo, e la nota perdita di dignità che ne segue; scopre che con il turismo di massa arrivano anche altri servizi correlati al turista: le discoteche, l’alcol, la prostituzione, la débauche.

Ma soprattutto si scopre un paese cambiato.

Non solo esistono locali notturni, cocaina, prostitute, ragazzini sui marciapiedi e clienti di tutto il mondo che ne acquistano i servizi, ma anche gay, travestiti e transessuali. E forse capisce che il cambiamento è irreversibile. Scopre il potere di semidei che ha conferito ai sauditi e ai cittadini dei Paesi del Golfo, che con i petrosoldi tutto possono e tutto fanno. Se il Marocco acquista il petrolio dai paesi del golfo, questi per contro reinvestono nel regno maghrebino: nel 2014, l’ammontare degli investimenti del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG) è stato pari a 10 miliardi di dirham, circa un miliardo di euro, segnando un +82% rispetto all’anno precedente; il 44% degli investimenti è ad opera degli emirati, seguiti dall’Arabia Saudita con il 38%. Telecomunicazioni (Maroc Telecom), energia elettrica (JLEC) sono a parziale finanziamento di compagnie emire, il porto di Casablanca e la marina di Rabat vedono invece il coinvolgimento saudita.

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Nelle dichiarazione del regista riportate da ansa.it, dice che a fare tanta paura, a innescare tanto odio in patria (una patria che, ricordiamo, non ha visto il film) è stata più che altro l’immagine delle prostitute che viene fuori.

Un po’ vittime sì, ma soprattutto forti, resilienti ai disastri della vita, combattive e indipendenti. Questa spiegazione non convince.

Dall’idea della forza a quella della sopportazione il passo concettuale è breve, è stato compiuto millenni fa e la sua semantica ancora sopravvive. Nelle protagoniste del film c’è sì tanta forza, ma c’è anche tanta sopportazione e non c’è niente di nuovo né di sovversivo in una donna che sopporta il dolore, anzi è una virtù che è sempre stata riconosciuta al femminino. L’idea che dalla prostittuzione come business derivi una nuova indipendenza delle donne e una rinegoziazione dei ruoli di genere all’interno di una società patriarcale come quella marocchina è forse vera, ma è un’idea figlia del neoliberismo più sfrenato, quello che dice che tutto è vendibile. Il mito della prostituzione come impiego finalmente sdoganato, libero dai lacci sia della moralità bigotta che dagli sfruttatori è solo una delle retoriche dell’ultimo secolo, e le testimonianze non troppo gaudenti delle prostitute che esercitano nell’avanzatissima Germania e Olanda, neo-liberate e imprenditrici di sé stesse, ne sono una prova.

Ma le parole di Ayouch non convincono soprattutto perché l’odio e la rabbia che il film ha scatenato nel Paese non hanno eguali, tra una popolazione che il film, ricordiamo, non l’ha potuto vedere. L’hanno visto però le autorità che in seguito ne hanno vietato la diffusione e a spaventarle tanto non è stata certo l’immagine delle prostitute come donne forti. A farli saltare dalla sedia sono state – forse – le immagini delle connivenze che la polizia, e in senso lato tutto il potere statale e governativo, hanno con quei vizi che tanto fermamente condannano in pubblico, quelle autorità che sanno esattamente chi si prostituisce e chi ne compra i servizi, quell autorità che non toccano, non possono toccare, il potere degli stranieri che in Marocco investono. L’operazione di distrazione è perfettmente riuscita: tutti odiano il film, il regista Ayouch e le attrici perché non danno una bella immagine del Marocco e delle donne marocchine, non certo per la correità che c’è tra il governo e gli investitori esteri o per gli abusi degli uomini in divisa.

Nabil Ayouch

Nabil Ayouch

Nel 1970 una psichiatra svizzera, Elisabeth Kubler-Ross, aveva formulato una teoria sull’elaborazione del lutto che prevedeva cinque fasi corrispondenti a cinque stadi psichici che la mente attraversa quando si trova a dover affrontare un lutto. Il morto in questo caso è l‘immagine che il Marocco aveva di se stesso:

un paese povero in infrastrutture e investimenti stranieri, ma ricco in moralità, ospitalità e benevolenza, un paese rispettoso di quelle tradizioni della cultura semplice, contadina ma anche avventuriera e marinara, un paese religioso di una religiosità sofisticata e atavica allo stesso tempo, elaborata e popolare.

Al lutto, la prima reazione che è seguita è stata quella della negazione: sono punibili per legge l’omosessualità e il sesso fuori dal matrimonio. Non esiste, nel codice penale marocchino, il reato di pedofilia ma solo quelli di incesto e stupro ai danni di un minore. Non esiste nememno la parola pedofilia. Le prostitute e i clienti ci sono, ma non si vedono. Queste persone e questi comportamenti non esistono, non devono esistere: la negazione.

Poi è arrivata la rabbia.

A luglio un uomo era stato aggredito per le strade di Fes perché presumibilmente gay, aveva scampato il linciaggio più per fortuna che per pietà dei suoi aguzzini; il mese prima due uomini erano stati arrestati mentre manifestavano per la depenalizzazione del reato di omosessualità e sono stati poi condannati a 4 mesi di carcere; nello stesso periodo due giovani donne erano state aggredite nella medina di Agadir perché in gonna e accusate loro stesse di oltraggio al pudore.

Dice la Kubler-Ross che a questo punto dovrebbe arrivare la fase del patteggiamento, cioè l’inizio del compromesso con una realtà che che è un dato di fatto: l’accettazione di sè che il  Marocco intraprende, un paese diverso da quello dei padri; ma soprattutto l’ammissione nella discussione pubblica e politica di temi e problemi che esistono già, come il turismo sessuale, la prostituzione e il ruolo degli investitori esteri nelle polictiche nazionali. Ed è questo il miglior augurio che mi sento di fare al Marocco.