di Christian Elia
C’è stato un tempo, in Israele, dove Gideon Levy sarebbe stato uno dei tanti. Acuto, pungente, penna acuminata, ma un primus inter pares, circondato da altri intellettuali non omologati, coltivatori di dubbi, nati per eccepire al pensiero unico.
C’è stato un tempo in cui in Palestina, come mi ha detto una volta una esponente della famiglia Hosseini, ti svegliavi “e guardavi il sole, sperando che tra gli ebrei fosse nato un altro Gideon Levy”.
Ecco, quel tempo non c’è più. E’ finito chiuso in un angolo di solitudine, come un vecchio ricordo, come un oggetto superato. Oggi è il tempo dell’odio. Ed è inutile raccontarsi false speranze.
Gideon Levy, ieri, 2 dicembre 2015, ha incontrato il pubblico alla Casa della Cultura di Milano. Un pubblico numeroso, che ha gremito la sala, compensando il gelo della conferenza stampa prevista per le 16. Alla quale non ha partecipato nessuno.
Come ha ricordato Patrizia Cecconi, dell’Associazione Oltre il Mare, che ha organizzato il viaggio di Levy in Italia, nessun giornalista si è presentato. Perché i giornalisti non intervistano i giornalisti, si potrebbe eccepire, ma poi basta guardare tg, giornali e ascoltar la radio per capire che non è quello in problema. Il problema, come dimostra anche l’assenza di patrocini istituzionali all’evento, è che della situazione israelo – palestinese è ormai concessa una unica versione.
“Sono nato a Tel Aviv nel 1953, figlio di due rifugiati in fuga dall’Europa. Sono il tipico prodotto del sistema educativo israeliano, formato come tutta la mia generazione, convinti dell’idea che il nostro status di vittima ci obbligasse a una difesa permanente”, racconta Levy.
“Per noi la Nakba (come i palestinesi chiamano la nascita dello stato d’Israele ndr) non esisteva, noi avevamo ragione, gli arabi torto, e volevano solo liberarsi di noi gettandoci in mare. Son venuto su come un bravo ragazzo, ho fatto anche il servizio militare, e ho fatto anche di peggio, come lavorare per quattro anni per Shimon Peres. Nessuno è perfetto. Con la prima Intifada, però, il mio mondo si è rovesciato. Da giornalista ho visitato e raccontato i Territori Occupati. Solo allora mi sono accorto del grande dramma che nascondevamo ai nostri occhi”.
Gideon Levy, dalle colonne del quotidiano Ha’aretz, ha deciso di sedersi dalla parte del torto. Assieme a pochi altri intellettuali (sempre meno) ha scelto di essere una sorta di sirena nel mare in tempesta. Continua a lanciare il suo segnale, rivolgendosi prima di tutto alla società israeliana.
“Io continuo ostinatamente a denunciare i crimini che vengono commessi ai danni dei palestinesi dal regime di occupazione. E continuerò a farlo, perché ci sarà un giorno – prima o poi – nel quale ci verrà chiesto conto di tutto questo. Ed è giusto che ne resti memoria. Gli israeliani non sono consapevoli e non sono informati, ma non potranno dire ‘io non sapevo’.”
Non c’è consolazione nelle parole di Levy, ma solo un quadro cupo, reso meno amaro solo dall’umorismo nero che gli ebrei dell’Europa orientale hanno esportato con successo in tutto il mondo.
“Israele detiene un record: è l’unico stato al mondo ad avere ben tre regimi: il primo è liberal – democratico, buono solo per i cittadini ebrei privilegiati, come me. Ma che ogni giorno di più, produce leggi razziste e liberticide. Il secondo è un regime di discriminazione, verso il 20 per cento dei suoi cittadini arabi. Vivono una parvenza di democrazia, votano e vengono eletti, ma non hanno gli stessi, reali, diritti degli israeliani. Il terzo, è un regime di apartheid, imposto attraverso una brutale occupazione militare”.
Secondo Levy, questo sistema si alimenta di tre bugie, che diventano la narrazione fondativa dell’identità israeliana: “La prima bugia è che Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente. Ecco, per me è come una donna incinta: o lo è, o non lo è. Non ci può essere democrazia quando due milioni di palestinesi in Cisgiordania e due milioni di palestinesi a Gaza non hanno libertà. Non puoi vivere con una situazione come questa a trenta minuti da casa tua, e convincerti che vivi in una democrazia, senza protestare, senza avere dubbi”.
“La seconda bugia è che il nostro è l’esercito più ‘etico’ del mondo. Io a volte, provocatoriamente, chiedo se almeno quello del Lussemburgo sia più etico – ammesso che lo abbia – e vengo travolto da una serie di insulti. Ma noi siamo un popolo eletto, questo ci viene insegnato, e siamo nel giusto. Anche perché siamo le vittime più vittime della storia, un caso particolare, che ci sdogana da quelli che sono i diritti di tutti. Se c’è un disastro al mondo, gli israeliani sono i primi ad arrivare con le loro strutture, ma in patria non vale, come il diritto internazionale, che in Israele è come rimosso. La storia dell’umanità è piena di occupazioni più lunghe e più brutali della nostra, ma mai nessuna occupazione è riuscita a raccontarsi come vittima. Da noi, l’occupazione sembra imposta, come quando Golda Meir diceva che non avrebbe mai perdonato agli arabi di averla costretta ad uccidere i loro figli”.
“La terza bugia è quella che si nutre della demonizzazione e della disumanizzazione degli arabi. In fondo, ammettiamolo, non sono proprio esseri umani a tutti gli effetti. E allora che senso ha parlare di ‘diritti umani’? I media, in questo, svolgono un ruolo criminale. Sono in prima linea nella disumanizzazione dei palestinesi. Quando ho scritto che trattiamo i palestinesi come animali sono stato criticato, ma dalle associazioni animaliste. Gli arabi nascono per ucciderci, punto. Lo desiderano, sanno fare solo quello. E non esistono più punti di contatto, momenti di condivisione e di incontro come in passato”.
Un quadro disperato. Che come sempre, si cerca di imputare a una fosca visione del relatore. Levy non tenta di illudere nessuno, sottolineando come l’odio reciproco non sia mai stato a questo livello. “Non ho speranze, non all’interno del Paese. Ormai da quel punto di vista si è andati troppo oltre. La società israeliana è sempre più razzista e militarizzata. Chi si batte contro questa situazione è uno sparuto gruppo, sempre più vecchio e sempre più solo. Ci sono belle realtà, come Breaking the Silence, ma non influenzano nessuno, delegittimati ogni giorno dal governo, dai media e dai militari. E quella che viene chiamata Intifada dei coltelli, rispetto alle altre insurrezioni del passato, è pericolosa. Non ha capi, non ha un disegno politico. E’ pura e semplice resa disperata, un immolarsi senza domani”.
Ma un cambiamento potrebbe arrivare da fuori. Levy è convinto che sia l’unica chance, ma non dalla politica. “L’amministrazione Obama è stata una grande illusione e per questo motivo diventa oggi una grandissima delusione. Mai come negli ultimi anni, il governo israeliano ha capito di poter fare quel che vuole senza pagare alcuna conseguenza. L’Europa è fragile, al solito. Guardate la storia dei prodotti delle colonie illegali. Ora devono essere identificati su mercati europei. Da un dovere delle istituzioni verso i cittadini, è nato un prostrarsi di scuse verso il governo israeliano, che ha presentato la vicenda come una nuova Auschwitz”.
E da dove, allora? “Dalla società civile, dalle organizzazioni non governative, da voi. Che avete maturato una consapevolezza sul tema maggiore di quella che media e politici veicolano. Se io fossi venuto negli anni Ottanta qui a dirvi che l’Urss sarebbe finita, che il muro di Berlino sarebbe caduto e che l’apartheid in Sudafrica sarebbe finita non mi avreste creduto. Ma è capitato. Israele è come certi maestosi alberi del New England in Usa, che sembrano solidissimi e forti, ma crollano all’improvviso, perché sono marci dal di dentro. Ecco la società israeliana è ormai persa, ma dalle vostre società civili può arrivare una scossa, attraverso il boicottaggio e altre iniziative”.
Per anni Levy è stato tra i sostenitori della soluzione con due stati. “Ma non ci credo più. Ormai la situazione sul terreno, con 600mila coloni, è compromessa. Uno stato unico esiste già, dal 1967, solo che è una brutale occupazione militare. Ecco, bisogna ripartire da questo: uno stato, una persona, un voto. A quel punto, Israele non avrà altra scelta che accettare o essere costretta ad ammettere di praticare l’Apartheid. E chi è disposto ad accettarlo nel 2015?”.