Mettere d’accordo 190 nazioni non è un compito facile. Far loro firmare l’impegno a cambiare radicalmente l’attuale modello di sviluppo nell’arco di poco più di trent’anni può essere quindi legittimamente considerato un successo della diplomazia francese che ci ha lavorato per un anno intero.
Di Gianluca Ruggieri
L’accordo di Parigi è quindi un risultato storico, anche se la storia si dovrebbe scrivere sempre a posteriori.
È chiaro però come un accordo del genere non possa che essere il frutto di un compromesso. Può quindi essere visto come un bicchiere mezzo pieno e contemporaneamente come un bicchiere mezzo vuoto.
Il bicchiere mezzo pieno è l’impegno a limitare l’aumento della temperatura media terrestre “ben al di sotto dei 2°C”, sforzandosi di rimanere al di sotto degli 1,5°C.
Il bicchiere mezzo vuoto è la mancanza di strumenti concreti, che dovranno necessariamente essere definiti nei mesi e negli anni a venire.
Il testo dell’accordo di Parigi è lungo 32 pagine e affronta il tema dei cambiamenti climatici da molti punti di vista. Si occupa delle strategie di mitigazione, cioè di come ridurre (e tendere ad annullare) le emissioni nette di gas a effetto serra, in modo da stabilizzarne le concentrazioni e di conseguenza di fermare l’aumento della temperatura terrestre. Questa parte dell’accordo è quella che ha ricevuto le maggiori attenzione. Ma allo stesso tempo si occupa delle strategie di adattamento, cioè di come fare in modo che i cambiamenti climatici a questo punto inevitabili (sia quelli già avvenuti sia quelli destinati ad avvenire) abbiano il minor impatto possibile sulle vite delle persone.
L’accordo di Parigi affronta inoltre i temi del finanziamento, dello sviluppo e trasferimento tecnologico e dello sviluppo di capacità. È un documento complesso e articolato i cui dettagli saranno più chiari solo tra qualche giorno. Ma da subito si sono moltiplicati i commenti di molte organizzazioni o di singoli studiosi che hanno seguito i mesi di negoziato che lo hanno preceduto.
Lasciando per un attimo da parte i commenti dei politici direttamente impegnati nel negoziato che inevitabilmente parlano di successo, tra i tanti che esultano troviamo ad esempio Greenpeace che sottolinea come l’accordo di fatto imponga la realizzazione di un’economia a emissioni zero entro metà secolo.
Infatti, come ben spiegava Nature qualche mese fa, per rimanere sotto la soglia dei 2°C, a livello globale, un terzo delle riserve di petrolio, metà delle riserve di gas e oltre l’80% delle attuali riserve di carbone devono restare inutilizzate. Questo implica che entro il 2050 cessi l’utilizzo di fonti fossili a fini energetici.
L’Italian Climate Network evidenzia l’inserimento del principio di equità intergenerazionale e l’accento dato all’educazione delle nuove generazioni.
Il WWF internazionale pare più cauto, sottolineando che l’accordo costituisce un’opportunità che però è tutta da costruire nel concreto nei prossimi anni.
In particolare le preoccupazioni riguardano il meccanismo di compensazione dei danni che i cambiamenti climatici già stanno producendo in diversi paesi poveri. Questa grave mancanza è sottolineata da Oxfam quando afferma che l’accordo cambia poco le prospettive per le popolazioni più vulnerabili.
Tra i più critici invece James Hansen, climatologo e fiero attivista, che parla di una vera e propria truffa. Hansen divenne celebre nel 1988 quando una sua testimonianza davanti a una commissione del Congresso statunitense contribuì a porre il tema dei cambiamenti climatici all’ordine del giorno. Da allora le sue iniziative si sono moltiplicate e Hansen è stato arrestato diverse volte e nel 2003 è andato in pensione per potersi dedicare interamente alle manifestazioni e all’attivismo. Commentando l’accordo di Parigi Hansen parla di “fraud”, “fake”, “bullshit”. Secondo lui l’accordo definisce solo principi generali e nessuno strumento concreto: “parole senza valore, solo promesse”. L’unica possibilità per ottenere i risultati su cui ci si è accordati a Parigi secondo Jansen sarebbe una tassa sulle emissioni di 15 dollari per tonnellata di CO2, destinata ad aumentare anno per anno.
Anche George Monbiot non può essere arruolato tra gli ottimisti e sul Guardian scrive che l’accordo di Parigi “Rispetto a quello che sarebbe potuto essere è un miracolo. Ma rispetto a quello che sarebbe dovuto essere è un disastro”. In particolare viene sottolineato come troppi governi mentre formalmente si impegnano a ridurre l’uso di combustibili fossili, ma poi nelle politiche concrete ne sussidiano l’utilizzo o ne promuovono l’estrazione (Monbiot ricorda l’azione in questo senso del governo inglese, noi ci permettiamo di aggiungere anche il governo italiano all’elenco di chi predica bene e razzola male).
La complessità dei temi, l’ampiezza degli argomenti affrontati, la dimensione delle aspettative, l’urgenza richiesta per affrontare il cambiamento climatico non aiutano a formarci in un tempo così breve un giudizio compiuto. E forse è giusto così. Lasciamo che sia la storia a dire perché l’accordo di Parigi sarà storico: se perché è un’occasione persa (forse l’ultima a disposizione) o se perché segna la fine dell’era delle risorse fossili.
Forse il giudizio più centrato è in un tweet di Bill McKibben, fondatore di 350.org. “Questo accordo non salverà il pianeta. Ma potrebbe aver salvato la possibilità di salvare il pianeta, se lottiamo come dannati negli anni a venire.”