di Christian Elia
Dovrebbe. Il condizionale, in guerra, è d’obbligo. In Yemen, poi, è ancora più necessario. Perché tanti, troppi, sono gli attori in gioco e le agende politiche dietro il martellante e sanguinoso bombardamento di civili per non temere che la tregua salti. Ma come si diceva, dovrebbe.
Un cessate il fuoco, che entrerebbe in vigore oggi, 15 dicembre 2015, a mezzanotte, in occasione dei colloqui di pace a Ginevra. L’inviato delle Nazioni Unite per la crisi in Yemen, Ismail Ould Cheikh Ahmed, è ottimista. Lo ha annunciato pieno di speranza, dopo l’attentato del 6 dicembre scorso. Ad Aden, ripresa dagli uomini del presidente yemenita Abd Rabbo Mansur Hadi, un’autobomba ha ucciso il governatore della città, Jaafar Mohammed Saad.
L’attacco è stato rivendicato dallo Stato Islamico, aggiungendo l’ennesimo attore non invitato al banchetto dello smembramento dello Yemen, sulla pelle dei civili. Il cessate il fuoco dovrebbe durare sette giorni, mentre nella città svizzera la diplomazia lavora a trovare un accordo tra la coalizione guidata dall’Arabia Saudita (che sostiene il presidente Hadi) e i ribelli del clan Houti, che hanno preso il controllo del Paese con la forza poco meno di un anno fa.
Gli Houti, seguaci del predicatore Ḥusayn Badr al-Dīn al-Ḥūthī, ucciso dalle forze armate yemenite nel settembre del 2004, sono zaiditi, declinazione dello sciismo. Il cuore del loro gruppo è da sempre il governatorato di Sa’ada, al confine con l’Arabia Saudita, e la contrapposizione al potere centrale della capitale Sa’ana non è certo una novità.
Solo che, secondo l’Arabia Saudita grazie al sostengo economico – politico – militare dell’Iran, hanno preso terreno dopo la deposizione dell’ex presidente Abdullah Saleh, deposto nel 2012 dopo un dominio lungo più di venti anni. Anche al tempo di Saleh l’esercito combatteva gli houti, ma anche e soprattutto per ragioni di divisioni del denaro e di autonomia. Ed è per questo che oggi, non a caso, gli Houti sono sostanzialmente alleati contro Hadi, subentrato nel 2012 a Saleh.
Perché la giustificazione religiosa (sunniti contro sciiti) è – come sempre – un pretesto per agende più complesse. Fatto sta che da marzo l’Arabia Saudita e altre monarchie del Golfo Persico bombardano e attaccano via terra lo Yemen. Con al-Qaeda e Daesh che si ritagliano il loro spazio.
Il risultato, per un Paese già gravato da una situazione economica tremenda, è una catastrofe. Sono almeno 6mila i civili che hanno perso la vita nei combattimenti. L’ultimo rapporto di Amnesty International denuncia che il 34% dei minori yemeniti non frequenta la scuola. E quando ci va, rischia la pelle, visto che Amnesty ha indagato su cinque operazioni militari – avvenute tra agosto e ottobre 2015 – a Hodeidah, Hajjah, e nel governatorato di Sana’a. Per i ricercatori di Amnesty, le scuole sono state colpite deliberatamente, uccidendo 5 civili (4 dei quali bambini) e ferendo altre 14 persone.
Secondo Human Rights Watch, un terzo dei combattenti è minorenne. Non è una novità, purtroppo, ma l’acuirsi della crisi e l’incremento delle violenze ha portato tutti i gruppi a contare su ragazzini con un fucile in mano. Se gli Houti ricorrono ai bimbi soldato, i caccia bombardieri sauditi li colpiscono senza pietà, con munizioni a frammentazione ormai ritenuti indegni dalla comunità internazionale. Armi che, come scritto da Q Code e da altri, transitano impunemente dall’Italia.
Quali sono le reali possibilità che i colloqui di Ginevra portino a un accordo? Difficile dirlo. L’Arabia Saudita, da tempo, gioca un ruolo opaco nella regione. Dopo aver soffocato la rivolta in Bahrein contro la casa reale, è intenzionata a lanciare un messaggio chiaro: con il disimpegno degli Usa dalla regione, alla nostra sicurezza pensiamo da soli. E l’accordo Usa – Iran sul nucleare non aiuta, considerata l’ossessione anti-sciita della monarchia saudita.
Che storicamente ha preferito scaricare altrove le sue tensioni, dal sovvenzionare gruppi integralisti in giro per il mondo a farsi paladino dell’orgoglio sunnita. Ogni fattore ‘esogeno’ è meglio che affrontare le contraddizioni interne. Il rampollo Mohammed bin Salman al-Saud, attuale ministro della Difesa e terzo in ordine di successione al trono di Ryadh, è la mente dell’operazione Tempesta Decisiva in Yemen. Lui, che ha già incontrato Obama e Putin, è una figura chiave della nuova generazione di potere saudita con cui fare i conti e tentare di trovare una mediazione internazionale.