La Bolivia ai tempi del Germinal

Prima di arrivare in Bolivia non avevo mai incontrato un minatore. In Italia e in Europa questo mestiere è quasi scomparso e l’accesso ai siti di estrazione è vietato ai non addetti ai lavori.

Testo e foto di Samuel Bregolin

Prima di arrivare in Bolivia non avevo mai incontrato un minatore. In Italia e in Europa questo mestiere è quasi scomparso e l’accesso ai siti di estrazione è vietato ai non addetti ai lavori. Le terribili condizioni di lavoro di fine ottocento sono ormai un ricordo tramandato solo dal Germinal di Emile Zola. Non è così in Bolivia: tra gallerie base, vie specializzate nelle vendita di dinamite e foglie di coca, vecchi sindacalisti militanti e peones pagati alla giornata. Un universo diverso e inaspettato, situato a 4’000 metri d’altezza.

Corso latino-americano di terrorismo

Potosì è la città più alta al mondo: 4’090 metri sul livello del mare, in cima alle Ande. Qui l’estrazione dei minerali è l’attività economica più importante fin dai tempi della colonizzazione spagnola. Se argento e oro sono finiti da tempo, oggi è lo stagno a trovarsi ancora in abbondanza. All’attività d’estrazione negli ultimi anni si è aggiunta quella del turismo, sono numerosi gli stranieri che passano di qui per una visita della montagna. L’idea di andarmi a schiacciare su di un trenino stile Disneyland, tra australiani e statunitensi che si fanno i selfies con attori che recitano la parte dei minatori non mi attira per niente. Io voglio incontrare dei veri minatori.

Trovo qualcuno pronto ad aiutarmi: Antonio, che gestisce uno spaccio in Calle Hernandez, la “carretera mas peligrosa del mundo”, la strada più pericolosa al mondo, perché è qui che vengono venduti i candelotti di dinamite utilizzati nei tunnel sotterranei. La dinamite è esposta sugli scaffali del negozio di Antonio così semplicemente come ogni altro articolo: bottiglie d’alcool, fiammiferi, utensili da lavoro, pale, stivali, lampade elettriche e candele. Antonio mi mostra come si installa il detonatore e mi dice: “Benvenuto al corso sudamericano di terrorismo” e scoppia in una folle risata. Antonio è un ex minatore, figlio e nipote di minatori e come per molti altri qui in zona per lui la miniera è una storia di famiglia. È lui che mi accompagnerà nel sottosuolo all’incontro dei minatori. Prima di partire prendiamo con noi qualcosa da portare a chi sta lavorando: dinamite, alcool puro, qualche bibita gassata e un sacchetto pieno di foglie di coca. “Masticare coca è l’unica maniera di tenere la fatica di 10 ore di lavoro nel sottosuolo” mi spiega Antonio “era una tradizione dei popoli indigeni, che per secoli l’hanno tenuta nascosta agli spagnoli”.

Cerro Rico: una torre di babele caotica e disordinata

Partiamo, prima tappa l’agglomerato urbano di Pailabiri, l’equivalente dei quartieri di Coron costruiti nel nord Europa come alloggio per i minatori del carbone. Qui le case hanno miseri tetti di lamiera ondulata, utilizzati per mettere ad asciugare i panni, i bambini giocano a nascondino e ci guardano passare incuriositi. Alcuni anziani discutono seduti sul marciapiedi masticando foglie di coca, hanno già svuotato una mezza bottiglia di coca cola riempita con una forte grappa fatta in casa, m’invitano a bere con loro ma vista l’ora del mattino preferisco rifiutare. Pailabiri è stato costruito ad inizio anni 50, quando la mineria boliviana è passata nelle mani dello stato, in quel periodo i minatori avevano diritto ad un alloggio, all’assistenza medica e a un giorno di riposo a settimana. Le conquiste sindacali durano poco, nel 1985 per eliminare qualsiasi concorrenza internazionale gli stati Uniti immettono nel mercato stagno a basso costo, la crisi colpisce la città di Potosì che rischia di diventare una città fantasma. Lo stato abbandona lo sfruttamento delle miniere e licenzia circa 10’000 minatori.

“Oggi il Cerro Rico è sfruttato prevalentemente da cooperative private” mi spiega Antonio mentre dal punto più alto di Pailabiri osserviamo la montagna di fronte a noi “l’estrazione si fa ancora come nei tempi antichi: con pala, piccone e dinamite. Gli incidenti sono frequenti, non esiste nessuna protezione, i peoni che scendono in miniera ogni giorno non guadagnano abbastanza e la speranza di vita non supera i 35 anni”. Il Cerro Rico, questa montagna che rappresentò una delle fonti più importanti di estrazione dell’argento di tutta l’America coloniale spagnola, la cui sola fama faceva alzare e scendere le borse del vecchio continente, oggi sembra una grande babele disordinata. Decine di lavoratori salgono le strade di fangosa terra rossa, i camion arrancano tra nuvoloni di polvere. “Questa montagna è come un formaggio svizzero“ conclude Antonio “un’immensa gruviera piena di buchi.”

La discesa agli inferi

Arriviamo all’entrata delle gallerie gestite dalla cooperativa Primero de Avril: alcuni ragazzi scherzano mentre indossano gli abiti da lavoro, un camion carico di pietre ci passa accanto riempiendoci di polvere e una teleferica antidiluviana continua a vomitare carrelli carichi di pietre e minerali. “Le donne non scendono nel sottosuolo” mi spiega Antonio quando passiamo accanto a due donne che, accucciate al suolo, spezzano pietre col martello, “secondo le credenze degli indigeni la madre terra è una divinità femminile: la Pachamama, che diventa gelosa se altre donne scendono nel suo ventre e irritata nasconde i minerali preziosi agli uomini.” Una delle due donne al lavoro si volta e parla con noi, poi accetta di farsi fotografare, un evento più unico che raro visto che per gli indigeni le fotografie rubano l’anima. Celestina ha 87 anni, lavora da quando ne ha 40, da quando il marito morì lasciandola da sola con 5 figli.

La discesa agli inferi inzia prima ancora di mettere piede nel sottosuolo: condizioni di lavoro da diciannovesimo secolo, nessuna protezione o assistenza sociale, solo i proprietari delle cooperative che pretendono che i livelli di produzione siano rispettati. L’ingresso delle miniere è un buco largo poco più di un metro, dopo pochi passi siamo avvolti dall’oscurità, scendiamo lungo una malferma e scricchiolante scala di legno. Il buio è inquietante, il silenzio si fa soffocante, penso che se la lampada elettrica che porto in testa smettesse di funzionare mi farei prendere dal panico. All’improvviso siamo ritornati all’epoca del Germinal di Emile Zola. Scendiamo qualche livello, siamo a una trentina di metri sottoterra, niente in confronto ai più di 500 delle miniere più profonde. Il soffitto delle gallerie è basso e faccio fatica a tenermi in piedi, avanziamo con gli stivali immersi nel fango. Una cuadrilla, i gruppi di lavoro formati da 4 o 5 minatori, ci raggiunge e ci supera agilmente.

Il diavolo sotterraneo

Inutile negarlo, vista dall’interno la montagna è molto diversa. Fuori potrebbero esserci il giorno o la notte, il sole o la pioggia, la pace o la guerra: nel ventre della terra il tempo non esiste più. “Gli spagnoli non scendevano mai nelle miniere” continua Antonio, “avevano troppa paura degli incidenti, delle malattie e delle fughe di gas: per questo introdussero l’immagine del diavolo. Gli spagnoli diffusero la voce che gli incidenti in miniera non erano casuali ma la punizione del diavolo per chi non lavorava abbastanza, per convincerli installarono delle statue che rappresentavano il diavolo nelle profondità delle miniere.” Gli indigeni non credettero mai a queste leggende e non si convertirono, se non di facciata, al cattolicesimo. Ai loro occhi il diavolo divenne el Tio, il lato maschile dell’universo, che accoppiandosi con la Pachamama la fecondava di metalli preziosi “Gli indigeni cominciarono a fare offerte al Tio con l’approvazione degli spagnoli, ma continuarono a credere alle loro divinità”.

Sono arrivato a Potosì con in testa le pesanti condizioni di lavoro ed ecco che scopro rituali pagani, credenze vecchie di secoli e l’idolatria per una statua del diavolo. Antonio mi accompagna a vedere el Tio, una delle tante staute che si trovano nelle profondità del Cerro Rico. In fondo a un lungo corridoio ceco c’è una grande statua rossa: il diavolo è seduto imperioso sul suo trono, le mani appoggiate sulle ginocchia, il ghigno feroce, un enorme pene in erezione, il tutto cosparso da foglie di coca e bottiglie di alcool vuote “I minatori offrono coca, alcool, chicha di mais, feti di lama mummificati e sigarette”. Arriva un minatore in pausa che ci saluta con un cenno della testa, silenzioso estrae una bottiglia di alcool, ne rovescia la metà sul sesso del Tio, beve l’altra metà, recita una preghiera in quechua e si siede in silenzio a masticare foglie di coca. “Anche noi dobbiamo bere con el Tio e chiedere la sua protezione.” mi spiega Antonio, “prima di andarcene spegneremo le lampade elettriche e faremo un minuto di silenzio per i minatori morti o rimasti feriti in questa miniera.”

Edgar Huricane Fernandez, il Papa dei sindacalisti

Per vederci più chiaro mi reco a La Paz, dove ha sede il CoMiBol, la Corporacion Minera de Bolivia. Qui ho appuntamento con un personaggio quasi leggendario, Edgar Fernandez, soprannominato “huricane” per la tenacia. Fu uno dei sindacalisti di ferro del ventesimo secolo boliviano. Amico di Arafat, Fidel Castro e Evo Morales, quando entro nel suo ufficio ho l’impressione di andare a parlare col Papa. Fortunatamente Edgar si dimostra assai aperto e disponibile, scopro che la reputazione se l’è meritata. Per decenni è stato in prima linea nelle battaglie sindacali, in un’epoca nella quale i minatori manifestavano col petto coperto di dinamite.

Edgar Huricane Fernandez è nato in Calle Hernandez e conosce bene luci e ombre di Potosì: “Le cooperative sono solo uno stratagemma crudele, chi mette i soldi per aprire l’impresa sono sempre industrie straniere, americane o giapponesi, che danno alla cooperativa un nome tipicamente boliviano, in lingua quechua. Sono decine le aziende straniere che a Potosì operano sotto falso nome, la giapponese Sumitomo si spaccia per la Sinciwaila, che in lingua quechua significa vento forte, la svizzera Glencore si fa chiamare Illapha, in quechua brillio dell’oro. La canadese Orbana ha adottato il nome Manquiri: un’importante estuario della zona. Queste e altre, tutta compagnie straniere che lavorano in Bolivia sotto falso nome. Ci sono soci ricchissimi, come Richard Alave, figlio di Felix Alave, che possiede una flotta di autobus tra Potosi e Sucre e che fa parte del Club Nacional de Potosì a cui paga una quota mensile di 10’000 dollari: imaginate quanto guadagna se può permettersi una simile iscrizione mensile? Per lui lavorano più di 300 peones. O ancora José e Antonio Pardo o Vladimir Smith, anche loro ricchissimi.“Nessuno sospetta che le cooperative siano solo una copertura per i capitalisti stranieri. A scendere nel sottosuolo sono sempre gli stessi, i peones, che rischiano la vita e non hanno nessuna copertura medica o assistenziale. Contiamo 15’000 persone ufficialmente iscritte alle cooperative di estrazione mineraria nel Cerro Rico ma sappiamo che in realtà devono esserci almeno 20’000 persone che scendono nel sottosuolo. Se andiamo a vedere gli iscritti all’assistenza sociale troviamo solo 12’000 persone presenti e non più di 8’000 iscritti alla cassa pensioni. Secondo la ONG Save the childrens, nel 2004 lavoravano 4882 ragazzini tra i 10 e i 18 anni.”