Di fronte alla legge siamo tutti uguali. O quasi

Storie e riflessioni sull’accoglienza di migranti
e richiedenti asilo nel nostro Paese con chi, ogni giorno,
ci lavora fianco a fianco


di Carlotta Dazzi

«Ho sempre pensato che accanto al primo conforto (o forse ancora prima) fatto di prodotti alimentari,
ai rifugiati appena arrivati in Italia vada fornito immediato supporto e consulenza legale altamente specializzata e coadiuvata da altrettanto capaci interpreti. Mettere uno staff di avvocati esperti in immigrazione a disposizione dei rifugiati per l’orientamento legale dei migranti e l’istruttoria delle pratiche però ha un costo elevato. Quindi in Italia non ci si pensa per ignoranza e superficialità, o perché il nostro Paese, come sempre, vuole andare al risparmio. Un servizio ridotto all’osso che si avvale di persone senza istruzione, senza adeguata formazione professionale non solo non è utile, ma può essere dannoso per i rifugiati appena arrivati in Europa. Sono indispensabili anche psicologi sia per adulti che dell’età evolutiva, anch’essi affiancati da interpreti qualificati».

A parlare è Cristina Bocchi, volontaria-attivista sul fronte profughi e rifugiati di Milano, in prima linea come interprete e traduttrice al Tribunale di Milano. Rimettere in piedi l’Italia dell’accoglienza, dove l’assistenza ai rifugiati è diventato anche un bel business, non è cosa scontata e il dubbio che non ci si riuscirà in tempi brevi sorge spontaneo non solo a Cristina Bocchi, che da “insider” del sistema dei rifugiati sa bene di quel che parla.

Fondamentale per questo è muovere bene i primi passi già dalla prima accoglienza, sottolinea Cristina.

Bisogna puntare a offrire una consulenza in loco subito con avvocati esperti d’immigrazione che possano aiutare i profughi a cavarsela quando andranno a chiedere asilo e troppo spesso sono abbandonati a se stessi. Per ogni rifugiato, il Tribunale di competenza ricrea tutta la storia della persona e il procedimento per ottenere l’asilo o la protezione è fatto di interrogatori, sedute infinite. All’inizio, soprattutto i ragazzi molto giovani non hanno idea di cosa sia e cosa comporti questo iter e quindi è molto importante aiutarli, accompagnarli.

«Come lavoro faccio la traduttrice e l’interprete», racconta Cristina parlando del suo quotidiano fra i rifugiati. «Il nostro sportello dei traduttori è proprio accanto a quello degli atti notori, dove vanno i richiedenti asilo che hanno già l’asilo e che devono ottenere i documenti, e purtroppo quello che vediamo è che quando sono soli vengono trattati in modo molto sommario. Raramente trovano funzionari che hanno ricevuto la formazione sufficiente per essere veramente d’aiuto anche se c’è in ballo la loro esistenza, il loro futuro».

«La situazione del rifugiato non è quella del clandestino, però non hanno tanti diritti ed è per questo che il passo successivo alla prima accoglienza con pane e Nutella è rimboccarsi le maniche».

«I rifugiati che rimangono da noi sono tanti e aumentano anche quelli respinti da Danimarca, Svezia, Svizzera che devono ricominciare l’iter qua e l’accompagnamento per loro è la cosa più importante.
Se uno è in Corelli, disperso, da solo non arriva facilmente in via Larga e sbriga le sue carte se non è seguito».

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Ho incontrato ragazzi con storie sempre difficili e viaggi assurdi alle spalle. E, se arrivi dall’Afghanistan, magari dopo essere stato agganciato sotto un camion per 70 ore, non è che messo piede a Milano ti destreggi facilmente senza parlare la lingua, conoscere niente. C’è bisogno di qualcuno che faccia da filtro con i funzionari.

A Milano a occuparsi degli eritrei è Cambio Passo, Cristina Bocchi, altri interpreti e “semplici” mediatori culturali accompagnano gli altri su chiamata, dipende dalle lingue che parlano e dalla disponibilità data. Arabo, inglese, tedesco, francese e spagnolo sono le lingue che Cristina padroneggia come l’italiano. Traduttrice e interprete del tribunale e consulente d’ufficio, lavora sia in tribunale sia in carcere. Traduzioni di documenti, chiamate per udienze, intercettazioni telefoniche, o interrogatori sono il suo pane quotidiano.

Negli ultimi anni ha scelto di non andare più in carcere e segue quasi esclusivamente i rifugiati politici, che sono già nella fase del ricorso perché la loro istanza di richiesta di asilo è stata respinta. «Ho lavorato con i rifugiati per tanti anni, soprattutto africani. Ogni caso ci si deve inventare sempre qualcosa, i Paesi sono diversi, le storie sono diverse. Non c’è una procedura, un protocollo da seguire: ogni volta bisogna capire qual è la situazione», spiega Cristina, con la sua voce calma.

«Come traduzioni seguo gli iracheni e i palestinesi che non hanno mai smesso di arrivare dalla prima Guerra del Golfo, e oggi sono in campo anche con i siriani, i ragazzi eritrei e qualche afgano, se però qualcuno parla in inglese».

«Se non c’è il canale di una lingua comune è tutto in salita: loro come rifugiati spesso non sanno cosa vogliono chiedere e quali sono le leggi, le procedure, non hanno veramente idea. E i mediatori culturali non sempre conoscono le procedure».

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Per naturale predisposizione Cristina è sempre in ascolto, soprattutto delle rifugiate donne, spesso madri giovanissime o vedove con figli. «In presenza di donne ho sempre cercato di ascoltare le loro storie. Con le siriane in particolare ci sono tanti racconti disastrosi, ci sono tante vedove, o donne sole. Quando sono in famiglia, sono gli uomini che sbrigano tutte le cose pratiche, le donne sono “parcheggiate” e allora mi metto in ascolto: le storie delle siriane sono sempre difficili dopo quattro anni di guerra. Tutte le famiglie siriane hanno avuto dei lutti, morti strazianti, sparizioni». E con ognuno si crea un legame, che a volte facilmente diventa un legame di vita, di speranza.

«Ci sono ancora tantissimi siriani che sento ancora dopo tre anni di volontariato. Con mio marito e miei figli in casa nostra abbiamo anche ospitato una famiglia siriana per tre settimane e con loro le chiamate sono frequenti. Ora sono in Svezia, erano un papà con una bambina e il fratello del papà con sua moglie».

«Poi, successivamente, in Svezia hanno fatto arrivare anche la mamma della bambina, una sorellina, un bimbo neonato e la nonna. Però per il ricongiungimento famigliare hanno aspettato un anno e mezzo, si erano portati la bimba perché con un minore speravano fosse tutto più veloce, ma in realtà per riunire il nucleo famigliare legalmente c’è voluto molto di più».

La felicità sanno ancora che cos’è? Riescono, una volta arrivati alla fine della loro Odissea, a sentirsi veramente in pace e con un futuro davanti? Sono domande che ci poniamo spesso incontrandoli e chi mi vien spontaneo girare a Cristina.

«In Svezia e in Olanda sono al sicuro, ma non sono contenti perché la situazione in Siria è andata sempre peggiorando e, anche se sei in salvo e non ti cadono più le bombe in testa, resta una situazione in cui non si vede uno spiraglio di pacificazione, di possibile fine».

«Tantissimi siriani inizialmente si erano installati nei paesi limitrofi, in Libano, in Giordania, in Egitto e in Turchia dove parlano anche un’altra lingua. In moltissimi, soprattutto in Egitto, avevano tentato di avviare nuove attività, avevano aperto ristoranti, pasticcerie. Poi l’Egitto è precipitato anche lui nel baratro e molti siriani sono stati derubati. E costretti ad andarsene lontano loro malgrado perché per un siriano è comunque più facile vivere al Cairo o ad Alessandria d’Egitto piuttosto che in Svezia. Lo accettano ma non sono felici, a parte qualche giovane determinato che è riuscito a imparare la lingua e a iscriversi all’Università per finire un corso di laurea interrotto, una minoranza».

»Non ho mai sentito nessuno contento del viaggio fatto, mai sentito un siriano contento di aver lascito la Siria».

«Inoltre, a differenza per esempio dei palestinesi, nessun siriano parla mai di tornare indietro, tutti sanno che si sono lasciati indietro la distruzione più totale. Una cosa terribile per un rifugiato: non riuscire a immaginare un ritorno. I siriani che arrivano da Aleppo, Homs è come se avessero lasciato la terra di nessuno e anche quello che trasmetteranno ai loro figli é un punto interrogativo».

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Cadiamo inevitabilmente a parlare di futuro, di Europa, di scelte, politiche e di vita. «Da europea, da italiana, non sono molto contenta, tanti ci stanno facendo un bel business. Il fatto che si lascino lavorare tutti i trafficanti del mondo è gravissimo, si potrebbero garantire viaggi più sicuri come quando sono arrivati i primi tunisini e l’Italia concesse dei visti di transito. Quando la Merkel ha detto che accoglieva tutti i siriani ha dimenticato che la Siria non confina con la Germania e che o si fanno dei ponti umanitari con voli e treni e si portano in Germania, oppure chiaramente li si lascia in balia dei trafficanti a partire dai libici per finire ai passeur del Nord Europa. Ma non voglio puntare il dito su nessuno. Se fossi una profuga e l’Europa non mi offrisse strumenti legali per scappare dalla guerra, come madre di famiglia se avessi i soldi penserei solo ad arrivare a destinazione e a mettere in salvo la mia famiglia».

Siamo tutti d’accordo sul fatto che chi approfitta dei rifugiati per strozzinarli anche per pochi chilometri è un criminale, ma – come giustamente si chiede Cistina da volontaria all’hub profughi e interprete per i rifugiati al Tribunale di Milano – noi Europa cosa abbiamo fatto?

[le immagini di questo articolo sono tratte da unhcr.org]