Marce pacifiche represse nel sangue, poliziotti in tenuta antisommossa che manganellano alla rinfusa, manifesti che invocano nuove mobilitazioni con lo slogan Al-shāb yurid isqāt al-istibdād (Il popolo vuole la caduta della tirannia). No. Non è un déjà-vu e non siamo nel 2011.
di Sara Borrillo
Diverse manifestazioni di insegnanti stagisti si svolgono in diverse città del Marocco. A Casablanca, una delle più nutrite: per il Tel-Quel in piazza ci sono 800 persone secondo le forze dell’ordine, 2000 per gli organizzatori. A Inezgan una delle più represse.
Dopo le lotte dell’autunno scorso, gli studenti tornano a rivendicare l’abolizione di due decreti adottati nel 2015 dal Ministero dell’Istruzione e della formazione professionale (5-12-588 e 5-12-589) che separano formazione professionale e lavoro. Il primo decreto mette fine all’integrazione automatica degli stagisti nella funzione pubblica dopo l’anno di formazione nei Centri regionali dei mestieri dell’insegnamento e della formazione (CRMEF), sottoponendo il loro ingresso nel mondo del lavoro ad un concorso. Misura considerata di troppo rispetto alla selezione già necessaria per accedere al tirocinio e ritenuta causa di un imbuto in uscita e tagli ai posti di ruolo. Il secondo taglia di metà la borsa dei tirocinanti, da 2454 dirham (poco più di 200 euro, quasi l’equivalente dello SMIG, il salario minimo interprofessionale garantito) a 1200 dirham.
La notizia, dopo qualche ora sui media nazionali, francofoni, e spagnoli, si diffonde subito su Facebook, in cui rimbalza la petizione lanciata su Avaaz per “punire i fautori della brutale repressione degli insegnanti tirocinanti”, con già 5000 firme a 48 h dai fatti. Sempre su Facebook si susseguono le denunce dei militanti del Movimento del 20 Febbraio, il movimento che a partire da questa data nel 2011 aveva portato in piazza migliaia di persone al grido di Libertà, Dignità e Giustizia sociale, scuotendo il regime. Di conseguenza il 9 marzo Re Muhammad VI annunciò la nomina di una commissione incaricata di scrivere una nuova Costituzione, poi resa nota a sole due settimane dal referendum del 1 luglio 2011. Stravinsero i “SI” al nuovo testo, alle politiche del 25 novembre salì al potere il partito della Giustizia e dello Sviluppo del cosiddetto islamismo moderato, con buona pace di osservatori che ancora oggi descrivono il Marocco come eccezione nella regione o come paese stabile in transizione democratica.
In queste ore si diffondono inviti alla mobilitazione insieme ad appelli alla solidarietà nazionale ed internazionale ai giovani insegnanti, come quello di Attac Maroc . Negli appelli per le prossime marce a Marrakech e Rabat, lo slogan “Rivoluzione della dignità” (Thawra al-karama) e le immagini di pugni chiusi rievocano cori e immagini della prima metà del 2011. Da allora il clima è cambiato, il Movimento del 20 febbraio si è frammentato, ma organizzazioni studentesche e gruppi informali hanno continuato a manifestare in diverse aree del paese, in maniera meno massiccia rispetto al 2011, certo, ma costante. Accanto all’Unione Nazionale degli Studenti e ai diplomati disoccupati, si sono mobilitati associazioni e gruppi nel campo dei diritti socio-economici e dei diritti umani e di cittadinanza. Diversi attivisti culturali, inoltre, si stanno riappropriando di nuovi spazi di immaginario e pubblici, come nel caso dell’Università popolare di Filosofia in strada (Falsafa fi Zanka) di Rabat. Le loro istanze vanno dal diritto allo studio, a un lavoro e un salario degni, alla sessualità, all’uguaglianza fra cittadini: dal diritto al presente al diritto al futuro.
Nonostante a due giorni dall’accaduto il Direttore della Direzione generale della sicurezza nazionale (DGSN) abbia ordinato l’apertura di un’inchiesta per perseguire i responsabili delle violenze, diversi militanti invocano la riforma urgente del sistema di “Governance Securitaria”, in modo che le forze di sicurezza – definite da alcuni « vacca sacra » del sistema – vengano sottoposte a maggiore controllo e a procedimenti per l’accertamento delle responsabilità in casi come quello degli ultimi giorni. Altri invocano il rispetto della nuova Costituzione affinché non resti ancora il simbolo di una democrazia al trompe l’oeil. L’articolo 22 infatti recita: “Non può essere recato alcun danno all’integrità fisica o morale di alcuno, in qualunque circostanza e da parte di chiunque […]. Nessuno può infliggere ad altri, secondo alcun pretesto, trattamenti crudeli, inumani, degradanti o di minaccia alla dignità della persona. La pratica della tortura, in tutte le sue forme è un crimine punito dalla legge”.
Il caso della repressione dei giovani insegnanti stagisti delle ultime ore non pare isolato, e dà la cifra di una politica di “contenimento democratico” che riconosce diritti e tollera rivendicazioni fino a un certo punto. A pochi mesi fa risalgono i casi d’interdizione di diversi eventi organizzati dall’Associazione Marocchina per i diritti Umani (AMDH) e il blocco arbitrario alla libertà di movimento di Maati Monjib, giornalista e studioso indipendente accusato di attentato alla nazione e di recente in sciopero della fame in segno di protesta.
Il Marocco risulta di certo uno dei paesi più stabili del Nord Africa, capace di coniugare riforme pubbliche significative all’ attrazione di investimenti stranieri di un certo peso, nonostante di recente le relazioni con l’UE – di cui il paese è partner privilegiato – si siano incrinate a causa della decisione della Corte Europea di Giustizia di sospendere gli accordi su pesca e agricoltura, in quanto svolte anche nella regione del Sahara Occidentale che secondo l’ONU il Marocco occupa illegalmente.
A poche ore dalle manifestazioni del 7 gennaio, un editoriale del britannico The Independent dedicato alle “Primavere arabe” affermava che “solo in Marocco pace e democrazia sembrano avere una chance”. Quantomeno bisognerebbe chiedersi a quale prezzo.