Gufra. Arabo. Quantità d’acqua che sta in un palmo di mano
di Isidora Tesic
Il passo di questa notte non ha fatto rumore. Ma nel silenzio arido, si è sentito, lo stesso, il lamento
senza tregua dei calpestati. Stamattina, Farah ha un volto secco di chi non ha risvegli, perché non
conosce sogni. Ha camminato lungo la stanza per due volte, prima di guardare fuori dalla finestra.
Sotto, a distanza di uno sguardo armato, si fa polvere un mondo di macerie.
Farah lo guarda come si guarda un deserto. Nel quale non sono concessi miraggi. La leggenda lo
dice nato, grano dopo grano, dal mal dell’uomo. E che il mondo non sia tutto sabbia scarna, per
Farah è un gesto di clemenza. Ma strana è la clemenza che grazia alcuni credendoli sopra gli altri.
‘Noi siamo gli altri,’ pensa, togliendo dal tavolo la polvere. ‘Scontiamo la pena di molti. Ma non c’è
più spazio anche per il loro deserto nella nostra terra.’
Dall’altra stanza sente il respiro lento di Habib. Afferra la ciotola e versa la farina e l’acqua. E nella
pasta sempre più scarsa misura il prezzo della fame a venire. Naufraga le mani nel crudo di un pane
macilento.
Le notizie dalla radio non concedono riposo. Non dicono più il numero dei morti. E Farah si
domanda se cominceranno a contare i vivi. Ma anche così, non crede più. Le voci del mondo d’oltre mare, scandiscono chiaro il bilancio di ogni giorno. Già da quattro anni traduce da altre lingue, la sorte del suo paese.
Inforna il pane, svelta. Oggi deve fare in fretta. Sa che il profumo inatteso sveglierà Habib. Ma non
la troverà accanto. Gli lascia sul tavolo la tazza e il libro. Naima penserà al tè. E gli insegnerà, come
da mesi a questa parte, come vivere in una lingua d’altri.
Farah indossa il velo ed apre la porta. Sua sorella entra, portando i suoi vent’anni come una
benedizione. Farah le sorride. ‘Il pane è nel forno. Scalda l’acqua per il tè. Vado al mercato,’ dice
uscendo. Non si volta in nessun ultimo saluto. Perché sa che gli ultimi saluti richiamano la morte.
In strada, sceglie, per oggi, la via più breve. Sperando che la disgrazia non faccia la stessa scelta.
Cammina, senza esitazioni. Nelle assenze portate sui volti, vede il vero bollettino del giorno. Non si
concede condoglianze. Oggi non ha parole per piangere altri.
Al mercato vede una fila di donne. Fedeli alla certezza che ogni madre abbia diritto ad almeno un
figlio vivo, li tengono accanto. Nel vederli Farah sente soffocarla la colpa remota di chi mette a vita
figli in guerra. Habib ha sette anni e conosce più parole per dire di morte che di vita.
Si unisce a loro, per pagare a prezzo pieno il costo di un giorno sfamato. D’un tratto in lontananza si
sentono degli spari. ‘E’ l’ora di qualcun altro’, pensa. E un sollievo, pesante di colpa, la stringe. Si
affretta nel ritorno.
A casa ritrova un’aria densa di menta. E la serenità accorta di chi non si abbandona al futuro. ‘Non ora’, pensa, guardandoli con amore, ‘Gli è concesso ancora tempo di questa quiete presa in
prestito’. Sorride, mentre si dirige nella sua stanza. Posa le borse nell’angolo. Ed afferra lo zaino. Per un breve istante, presta ascolto alla loro intesa. Poi, comincia a prepararsi. Prende vestiti, provviste e coperte. I risparmi di un viaggio mai fatto in Europa. Tutti i documenti, ad assicurare di essere esistiti.
Esce dalla stanza con lo zaino già preparato, manca una cosa sola. Habib la vede. E si ferma,
incerto. ‘Partiamo stasera, con un amico’, dice Farah piano. ‘Prendete poche cose’. Lui si alza e
dalla sua stanza, in un attimo, compare con una borsa già pronta tra le mani. Naima sorride, ’Anche
la mia è già pronta, laggiù’. Farah, stupita, si concede un breve conforto. ‘Andrà tutto bene’, dice
mentre raccoglie l’ultimo dei suoi beni.
‘Anche la rosa? Avevi detto poche cose’, chiede Habib. Lei gli risponde, convinta ‘E’ una rosa del
deserto. Ricorda che basta un gesto di cura per togliere dal mondo un granello di sabbia. Porta le
sue radici con sé. Si apre, salvata, in un palmo d’acqua. Noi siamo come la rosa.’ E la sua voce si fa
presagio.
Intanto nella stanza la sera si posa, disfatta. Poco tempo, prima di partire. Farah pensa, ancora una
volta, che ad ognuno il destino stia nel nome. Habib sarà amato. Anche se la morte ha mano avida
ed afferra per caso. Almeno una di loro gli sarà madre.
Farah esce con passo risoluto. Prende il figlio per mano e stringe a sé Naima. ‘E’ l’ora’, annuncia. E
mentre si allontanano dalle porte di Damasco, inizia a bassa voce la sua preghiera.
‘Felicità, che vieni e ancora non lo sai. Ti si domanda, a cuore incauto, tutto ciò che il cielo
concede. Scordando che il cuore è un pugno cavo. E non può amare più di quel che può stringere.
C’è chi non ha calendari per dirti il conto dei giorni in cui fare mite il dolore. C’è chi guarda il cielo
non per fede, ma perché la morte viene dall’alto. E chi guarda la terra davanti alla povertà, perché la
pietà non è più di moda. Per qualcuno non ci sono albe nuove, ma un lungo giorno solo, con
qualche riposo di fortuna. Che poi il sole non lo si può guardare sorgere, perché i muri spinati sono
più alti quanto più crudele è la guerra che assale alla schiena. C’è chi colma il debito contratto con
la sofferenza cedendo la tenerezza. E chi non contando che quella. Per qualcuno l’amore è una
perseveranza di pellegrino, che crede, anche non avendo risposte. Per altri è un colpo feroce da
ricevere con armi rese. C’è chi ha gratitudini senza destinatari e chi ha destinatari da non
ringraziare.
C’è chi t’attende, con occhi schiusi ad addomesticarti. E chi scalzo, ti cammina incontro. Come noi’