di Vito Calabretta
L’assegnazione, a fine 2015, del premio per la carriera a Mario Bellini da parte della Triennale di Milano ci consente di indugiare sull’intervento progettato dall’architetto per la mostra Giotto, l’Italia a Palazzo Reale di Milano: una mostra ardita, tanto anacronistica quanto attuale, sia per l’impianto storiografico, sia per le scelte espositive, sia per la proposta culturale. Un’esperienza fatta di quattordici opere che ci portano a passeggio attraverso i secoli, tra medioevo, contemporaneità, modernità e classicità, come se ci trovassimo a viaggiare su un cuscino pneumatico intersecolare.
Dopo mesi di riflessione, di indugio, di perplessità e di slanci ad aderire alle varie componenti della mostra, qualche giorno fa ho raccontato a una persona i quattordici tasselli che la compongono, i quattordici allestimenti proposti e progettati da Bellini; ho raccontato queste vedute nei termini di finestre.
«Ma non ti sembrano un po’ delle finestre, ognuna affacciata al lavoro, alla pittura, alla personalità, alla cultura visiva, alla missione iconografica e a tutto ciò che Giotto significa nella storia e nella retorica della storia dell’arte?».
Mentre spiegavo cosa, nella mia visione, io intendessi per finestre, mi veniva in mente il modo in cui Serena Romano, curatrice della mostra insieme a Pietro Petraroia, presenta il proprio libro intitolato La O di Giotto, pubblicato da Electa. L’introduzione parte dalla evocazione di un momento del romanzo Camera con vista di Edward Morgan Forster, quando, nel 1908, una ragazza esce dall’albergo e affronta, a Firenze, la storia e la storia dell’arte cercando di emanciparsi dalle costrizioni (ideologiche) della finestra (ideologica) della propria camera (che rappresenta la tradizione storica).
Serena Romano cita Forster per il modo in cui Giotto è presentato, coerentemente ai valori dominanti nella letteratura anglosassone durante il passaggio tra i secoli XIX e XX. Proseguendo nella lettura del libro di Serena Romano, tanto interessante quanto il catalogo che accompagna la mostra, troviamo la citazione di un altro testo importante, pubblicato dalla casa editrice SE: è il breve saggio di Roger Fry su Giotto, accompagnato da una interessante nota di Laura Cavazzini. Fry era amico di Forster ed è responsabile della costruzione di una monumentale finestra di sguardo sui temi della storia dell’arte, muovendosi anch’egli dal medioevo (la sua lettura di Giotto è notevole) alla sua contemporaneità (artista, restauratore e operatore dell’arte, organizzò importanti mostre sull’arte che definì “post-impressionista”). Fry scrisse:
«È difficile resistere alla tentazione di affermare che Giotto fu il più grande artista che sia mai vissuto […] ma il fascino che l’arte di Giotto esercita è dovuto, in parte, alla sua posizione nello sviluppo della cultura moderna».
Sono due espressioni cardine proprio perché dicono come, nella nostra cultura, noi attribuiamo un valore (Giotto è il più grande) proprio mentre comprendiamo che è il contesto storico a generare il valore (Giotto visse un periodo peculiarissimo della storia della nostra civiltà, insieme a Dante Alighieri).
La mostra milanese, in effetti, esprime bene questa densa duplicità e ambiguità sia della figura di Giotto, sia del modo in cui essa è stata vissuta nella storia, a partire dagli anni in cui l’artista stesso era vivo. Possiamo affermarlo per il modo in cui è stata concepita, per il modo ardito di presentare un autore così importante attraverso quattordici sue opere; per la modalità di organizzare l’esposizione distribuendo le presentazioni e i testi di spiegazione in spazi autonomi rispetto alle opere; per queste finestre in metallo attraverso le quali Mario Bellini ci proietta a cannocchiale nelle pitture, così distanti da noi e così complesse e importanti; per il modo di non risolvere le questioni delle attribuzioni, cioè di quanta parte delle pitture può essere lavoro della mano di Giotto e quanta possa essere il frutto del lavoro di altri.
Per questi e per altri motivi la mostra milanese, attraverso il lavoro di chi l’ha curata e di chi l’ha allestita, rimane un punto di riferimento e un tema di discussione importante.