di Francesca Rolandi*
Šid e Slavonski Brod, rispettivamente in Serbia e Croazia, due città unite dalla nebbia e dall’essere le tappe di transito mediane della cosiddetta Balkan route, alla periferia dello spazio Schengen. Entrambe ospitano dei campi di transito nei quali i profughi trascorrono alcune ore, hanno la possibilità di ricevere un guardaroba più caldo e di rifocillarsi in attesa del trasporto per la sosta successiva.
Quando i numeri degli ingressi sulla Balkan route iniziarono a gonfiarsi nel 2015, l’opinione pubblica internazionali si accorse che i profughi, una volta sbarcati in Turchia e aver raggiunto la frontiera con la Macedonia, procedevano lentamente, con mezzi di fortuna e a volte a piedi, seguendo la stella del ricco Nord Europa.
Per arrivarci entravano in Serbia e da qui in Ungheria, attraversando un confine difficile, ma con la prospettiva di trovarsi nello spazio Schengen. Ogni passaggio avveniva in una semi-illegalità protetta dal fatto che le polizie locali chiudevano entrambi gli occhi, per profitto personale o seguendo le direttive dei rispettivi governi che si riassumevano nel fare defluire le persone più in fretta possibile dal paese.
Anche le sistemazioni erano delle più diverse e, complici i grandi numeri, i profughi iniziarono a diventare visibili ai locali. Nell’estate 2015 non era più un segreto per nessuno che gli ostelli di Belgrado traboccavano di profughi – i più fortunati – mentre gli altri bivaccavano nel piazzale antistante alla stazione. Una scoperta che ha portato anche a una grande catena di solidarietà da parte dei cittadini comuni.
Ma gli eventi presero a muoversi molto velocemente. Alla fine di agosto 2015 Angela Merkel sospese l’accordo di Dublino, dimostrandosi disponibile all’accoglienza dei profughi a prescindere dal pese in cui avessero fatto ingresso. Con la chiusura del confine ungherese a metà settembre del 2015 il flusso venne indirizzato verso la Croazia, ma in maniera totalmente disorganizzata.
Accompagnati nei pressi della cosiddetta “frontiera verde” – quel tratto di terra di nessuno che separava i due paesi –, i profughi la attraversavano a piedi, tra il fango e l’incubo delle mine, triste ricordo della guerra degli anni ’90. Zagabria accusò Belgrado di inviare in Croazia un numero incontrollato di profughi e tra i due paesi si arrivò a una crisi e a un breve blocco per il passaggio di merci e individui di determinati paesi, riportando alla memoria l’incubo degli anni ’90.
Quando l’Ungheria sigillò definitivamente il confine con la Croazia, il flusso investì la Slovenia. Nel frattempo le condizioni climatiche erano cambiate e nel mezzo di un freddo autunno i profughi si trovarono a guadare torrenti ghiacciati. Ancora una volta Lubiana litigò con Zagabria, accusata di inondare la Slovenia di profughi non precedentemente registrati.
A forza di errori alla fine si creò una sorta di un corridoio umanitario all’interno del quale i migranti transitavano liberamente fino a raggiungere la Germania o il Nord Europa, appoggiandosi sia a strutture che a trasporti organizzati.
Il che rese il passaggio di profughi sempre più veloce e necessitò di una maggiore organizzazione e gestione, alla quale parteciparono ampiamente fondi internazionali e dell’UNHCR.
Un primo segnale di riflusso si manifestò alla metà di novembre, in seguito agli attentati di Parigi, quando la Germania iniziò a rifiutare di accettare i cosiddetti “migranti economici”, cioè tutti ad eccezione delle tre nazionalità (siriana, irachena e afghana), ai quali fu negata la possibilità di richiedere asilo in deroga alle normative internazionali esistenti.
Quando, nelle prime settimane dopo l’apertura della tratta, la frontiera tra Serbia e Croazia veniva attraversata alla rinfusa, i campi improvvisati si trovavano rispettivamente a Berkasovo, in Serbia, e a Opatovac, in Croazia. Si trattava sostanzialmente di tende separate da recinzioni metalliche alle quali approdavano i profughi, stremati dai tratti a piedi percorsi. Ci sarebbero volute alcune settimane perché si stabilisse un vero coordinamento tra Serbia, Croazia e Slovenia con un trasporto organizzato con autobus e treni per i profughi, che fortunatamente hanno smesso di dover arrancare nel fango.
Oggi i profughi entrano in Serbia dalla frontiera con la Macedonia presso Preševo, aspettando anche molte ore al freddo, e in misura minore dalla Bulgaria presso Dimitrovgrad, vengono trasportati fino alla cittadina di frontiera di Šid e da qui in treno ripartono verso Slavonski Brod, dove aspettano uno dei treni giornalieri verso la Slovenia.
I campi di Šid e Slavonski Brod sono dunque il prodotto di questo maggiore coordinamento, una macchina del transito che funziona a tempo determinato, finché qualche componente del meccanismo non si incepperà.
A Šid la maggior parte dei profughi transita attraverso la struttura riadattata di un motel semi-abbandonato sull’autostrada, nell’area di sosta Adaševci, dove hanno alcune ore per rifocillarsi e aspettare che gli autobus li conducano alla prossima tappa. “Secondo la legge serba i profughi hanno il diritto di rimanere in Serbia per 72 ore” spiega Pavle Strmičević, giurista del Centro per l’asilo di Belgrado, che ha una postazione all’interno del motel. “Ma vanno via tutti molto velocemente da quando il transito è diventato libero per le tre nazionalità in questione”.
Il motel è completamente isolato e sono nulle le possibilità che i profughi hanno di entrare in contatto con la popolazione locale. Parzialmente diversa è la situazione al centro per rifugiati che si trova di fronte alla stazione di Šid, dove i profughi attendono il treno per la Croazia per alcune ore. Quando questo arriva, inizia una procedura rituale: indirizzare i profughi in fila per poter agevolare le operazioni di imbarco sul treno.
Un’umanità variegata, che contiene pezzi della classe media mediorientale, contadini e studenti afghani, donne con i capelli tinti o intabarrate in abiti tradizionali e tanti tanti bambini, tutti esausti, mettono alla prova il loro spirito di sopportazione, mentre aspettano un treno diretto verso un luogo che la maggior parte di loro non ha idea di dove sia.
La polizia urla, spesso in maniera per loro incomprensibile, con i profughi, ma ama farsi riprendere dalle telecamere mentre gioca con i bambini. Pochi dei poliziotti serbi parlano inglese, pochi anche i profughi.
Quelli che lo fanno ricordano di aver dovuto pagare profumatamente per traversare le frontiere fino ad entrare in Turchia e il pericolo della traversata via mare. Quasi tutti sono arrivati via Preševo dalla Macedonia e solo un testimone iracheno ammette di averlo fatto dalla Bulgaria con la famiglia nelle mani di un trafficante.
In questi mesi le testimonianze peggiori raccolte da volontari e da giornalisti si sono riferiti proprio al transito attraverso la Bulgaria, dove i migranti verrebbero frequentemente picchiati, derubati e rinchiusi in centri dove non godevano libertà di movimento.
Tra gli intervistati di Šid un ragazzo afghano denuncia maltrattamenti da parte della polizia: afferma di essersi spostato da una fila mentre era a Preševo e di esserci stato rimandato con una manganellata. Non è improbabile tuttavia che la presenza della polizia serba nel campo inibisca altre eventuali testimonianze, sebbene in genere il comportamento delle forze dell’ordine sembra sia relativamente corretto verso i profughi. La Serbia vuole evidentemente farci bella figura, in particolare quando i riflettori internazionali sono puntati.
A Šid, gli abitanti negano qualsiasi interazione con i profughi, che sembrano essere invisibili nel loro veloce transito. Tutto quello che si sa, si dice, viene dai giornali.
Tuttavia, in un certo senso, i profughi hanno messo in moto una piccola economica locale, si spingono nei negozi adiacenti al campo per acquistare alcune cose necessarie per il viaggio, alle volte arrivano in taxi dal sud della Serbia, specie quando vogliono risparmiare ai bambini le lunghe attese al freddo.
I diretti interessati, proprietari di esercizi e tassisti, negano di trarre profitto dal transito dei profughi, sebbene in alcuni casi mostrino soddisfazione per il maggior giro creato dal personale umanitario. Anche all’interno del campo lavorano una quindicina di persone, un elemento non trascurabile per una piccola comunità depressa come quella di Šid.
Dove gli ultimi profughi che si ricordavano erano quelli interni e arrivarono con i trattori nell’estate del 1995, a seguito dell’Operazione Tempesta con la quale l’esercito croato riprese il possesso dei territori resisi indipendenti dal 1991, a prezzo di spazzare via gran parte della comunità serba dalla Slavonia e dalla Krajina.
Alcuni di costoro arrivarono a Šid, alle volte scambiarono le case con croati che se ne andavano in senso inverso, ma pochi rimasero perché non c’era lavoro.
L’economia singhiozza, come i grandi kombinat dell’agro-alimentare dell’epoca jugoslava. Il confine, che durante la Jugoslavia era una semplice linea amministrativa, è tuttora una barriera.
A breve distanza un complesso monumentale, quello al Fronte dello Srem, simbolo della resistenza jugoslava e della sua revisione critica. Qui morirono oltre 13.000 partigiani e altrettanti nemici. Un massacro che rimase nella memoria storica come inutile e di cui alcuni episodi furono interpretati retroattivamente, per esempio quello della brigata degli studenti belgradesi mandati a morire, come un tentativo di Tito di sbarazzarsi di quell’intellighenzia che avrebbe potuto in seguito creare problemi.
Passato il confine in Croazia i monumenti diventano altri, quelli dedicati ai martiri della “guerra patriottica”, definizione dietro la quale si nasconde in Croazia la narrazione vittoriosa del conflitto degli anni ’90. A breve distanza, la città martire di Vukovar.
Se queste zone furono tappe di transito dei profughi nell’estate 2015, oggi stazione di sosta è diventata Slavonski Brod, un centinaio di chilometri più a ovest.
Una cittadina che come Šid ha in comune, oltre ai campi, la povertà e un confine che la separa, questa volta dalla Bosnia Erzegovina.
Da alcuni anni i suoi cittadini si battono inascoltati per denunciare il livello di inquinamento dell’aria che ha raggiunto livelli allarmanti a causa della raffineria Brod, di proprietà russa, situata appena oltre confine in Bosnia Erzegovina.
Allo scoppio della crisi dei migranti in Croazia l’Istria, storico bacino rosso in Croazia, aveva dichiarato solidarietà ai profughi, a patto che non si facessero vedere sulla costa, con la stagione turistica era ancora in corso. E così l’impatto è stato retto dalla povere zone della Slavonia.
A Slavonski Brod il contatto della popolazione locale – ad eccezione di coloro che lavorano al campo – con i profughi è ridotto al minimo. Il campo si trova nell’ex zona industriale di Bijelaš, all’interno del quale arrivano i binari del treno e dove vengono effettuate le stesse operazioni che alcune ore prime erano state compiute a Šid.
E se da una parte la macchina organizzativa diventa sempre più rodata, dall’altra sempre più cresce la fretta. Fretta soprattutto da parte dei profughi, che guardano con terrore all’eventuale chiusura di una frontiera sulla loro rotta. Sono state diverse le madri che, dopo aver partorito, si sono rimesse subito in viaggio, temendo che un ritardo di 24 ore, avrebbe potuto influire drammaticamente sulla vita del proprio figlio.
Ma fretta anche da parte delle autorità per far sì che i profughi escano il più rapidamente possibile dal paese, effettuare le operazioni di imbarco per far sì che i treni arrivassero il più puntualmente possibile in Slovenia. Finché Lubiana li accetterà ovviamente.
Perché la Germania ha di recente reinviato in Austria i profughi che non avevano intenzione di chiedere l’asilo in Germania ma nel Nord Europa, l’Austria ha dichiarato di sospendere Schengen e la Slovenia di voler completare la barriera di filo spinato che la divide dalla Croazia.
In attesa che un blocco a monte si rifletta come un contraccolpo sulle altre frontiere, Croazia e Serbia seguono con preoccupazione ora per ora gli svolgimenti della situazione, temendo di risvegliarsi con il confine settentrionale chiuso e un esercito di disperati nei loro confini. Ormai convinte, come gli altri paesi, che questo castello di carte crollerà ma prive di qualsiasi piano alternativo.
*L’articolo è parte di un progetto multimediale sui confini mobili nell’area ex jugoslava sviluppato in collaborazione con Smk Videofactory e Graphic News.