di Maria Tavernini, da New Delhi
Si chiamava Rohith Vemula. Era uno studente al secondo anno di dottorato all’Università di Hyderabad, in India del sud. Si è tolto la vita domenica scorsa, impiccandosi nel campus dal quale era stato espulso per una disputa politica con il collettivo universitario avversario.
La sua morte, ascritta dai commentatori dell’opposizione nella lista di “omicidi istituzionali” dei fuoricasta indiani, ha scatenato un’ondata di sdegno nel paese: università in mobilitazione contro le discriminazioni, proteste in strada da Hyderabad a Delhi per chiedere le dimissioni dei politici e accademici coinvolti e cariche della polizia per disperdere i manifestanti.
La sua morte riapre la mai sanata piaga del sistema delle caste in India, di cui oggi si continua a morire. Rohith Vemula era un dottorando Dalit, un “intoccabile” che amava la scienza, le stelle e la natura e sognava di diventare uno scrittore come Carl Sagan.
Ha lasciato una lettera che nel suo assolvere tutti pesa come un macigno sulla società indiana, imbrigliata in un sistema di gerarchie sociali lontane dall’essere superate, e sulle istituzioni che lo hanno perseguitato per le sue idee politiche e le sue origini, a detta dei compagni dell’ASA, l’Ambedkar Students’Association, il collettivo di sinistra di cui Rohith era leader.
Come il nome suggerisce, il collettivo ASA si rifà al pensiero di B.R. Ambedkar, politico e pensatore rivoluzionario, “padre della costituzione indiana”, che ha dedicato la sua vita a combattere il sistema delle caste e le discriminazioni subìte dagli “intoccabili”, cui egli stesso apparteneva.
Il collettivo ASA, si batte per i diritti dei Dalit e contro le discriminazioni di casta, credo o etnia. Più di recente, gli attivisti dell’ASA erano impegnati in campagne in favore della minoranza musulmana in risposta all’ondata estremista e settaria del fanatismo induista di matrice BJP (Bharatiya Janata Party), il partito del premier Narendra Modi.
Lo scorso anno, gli studenti dell’ASA, avevano organizzato varie iniziative, come la proiezione di un documentario sulle violenze settarie a Muzaffarnagar nel 2013, una dimostrazione contro la pena di morte e l’impiccagione di Yakub Memon giustiziato l’anno scorso in connessione agli attentati di Mumbai del 1993 e diverse altre manifestazioni contro la crescente intolleranza nel paese.
Le varie iniziative non hanno incontrato il favore del collettivo rivale, l’Akhil Bharatiya Vidyarthi Parishad (ABVP) – propaggine del BJP in ambito accademico – con il quale gli attivisti dell’ASA sono entrati in conflitto fino ad arrivare, secondo l’ABVP, a uno scontro fisico.
È qui che ha origine il dramma di Rohith, che per una serie di fattori – la discriminazione di casta nelle università, l’annoso conflitto tra i collettivi di Hyderabad e una pessima gestione della faccenda da parte delle autorità accademiche – termina cinque mesi più tardi con la sua morte.
A inizio agosto, insieme a altri quattro membri dell’ASA, Rohith viene accusato di aver assalito il leader dell’ABVP Susheel Kumar e l’università apre un’inchiesta interna sull’accaduto. Già da luglio a Rohith era stata sospesa la borsa di studio, che per uno studente Dalit di umili origini significa un duro colpo.
A metà agosto, sotto la pressione dell’ABVP e di alcuni politici locali, l’Union Minister Baddaru Dattatreya (BJP) invia una lettera al ministero delle Human Resources and Development (HRD), accusando l’amministrazione accademica di essere un muto spettatore dei disordini all’Università Centrale di Hyderabad, divenuta in “un covo di castisti, estremisti e anti-nazionali”.
A dicembre, dopo un’iniziale condanna dei membri dell’ASA, Rohith invia una lettera al Vice Cancellor (VC) in cui chiede in tono ironico che agli studenti Dalit sia garantita l’eutanasia, corde per impiccarsi, veleno per uccidersi. Dopo uno scambio di lettere tra il professor Appa Rao, vicino al BJP, da poco eletto nuovo VC all’Università di Hyderabad, e il ministero HRD, a chiusura dell’indagine i cinque attivisti dell’ASA vengono definitivamente sospesi.
Espulsi dal dormitorio ma non dalle lezioni, per quasi due settimane Rohith e i suoi compagni si accampano fuori ai cancelli dell’università, per protestare contro le false accuse usate, a loro dire, come pretesto per attaccare le loro idee e discriminarli per le loro origini.
Quando il 17 gennaio Rohith si impicca nella stanza di un’amica, la sua morte è già un affare politico, che incendia i campus universitari da nord a sud del paese. Il suo non è il primo caso di suicidio di studenti Dalit nelle università indiane: almeno otto si sono tolti la vita solo a Hyderabad negli ultimi dieci anni.
Gli attivisti denunciano che tutt’oggi i “fuoricasta” sono vittime di abusi e discriminazioni, anche tra le mura delle università dove gli studenti delle caste alte nutrono un astio intriso di pregiudizi verso Dalit e tribali ai quali la costituzione garantisce posti riservati nelle università e negli uffici pubblici grazie alle “quote”.
Sotto costante minaccia di espulsione e diffamazione, molti Dalit finiscono con l’abbandonare gli studi, ostracizzati e stigmatizzati dalle alte caste che dominano le accademie. E la morte di Rohith diventa il martirio di un giovane dottorando e attivista di bassa casta. “E’ la vergogna e il fallimento della società”, commenta la scrittrice Meena Kandasamy.
“Il suicidio di Rohith è il risultato del milieu sociale che persiste nel sistema universitario”, ha dichiarato l’accademico Dalit Sukhadeo Thorat, presidente dell’Indian Council of Social Science Research, “le alte caste non solo isolano i Dalit, ma gli negano anche la possibilità di partecipazione paritaria all’interno del campus”.
I collettivi e l’opposizione, intanto, denunciano le responsabilità morali delle istituzioni accademiche – ancora divise secondo linee di casta e religione – della vittimizzazione e la morte di Rohith e chiedono le dimissioni dei ministri coinvolti e del VC Appa Rao.
E mentre la polizia ha avviato un’indagine sull’Union Minister, il VC Rao e Susheel Kumar per istigazione al suicidio, una dozzina di accademici e funzionari Dalit dell’Università di Hyderabad si sono dimessi in segno di protesta per le dichiarazioni del ministro HRD Smriti Irani, che in una conferenza stampa mercoledì ha accusato il Partito del Congresso, all’opposizione, di voler politicizzare la faccenda trattandola, “malignamente”, come una questione di casta.
Alcuni politici del BJP le hanno fatto eco affrettandosi a sottolineare il presunto legame del collettivo di Rohith con il terrorismo e le attività anti-nazionali e fondamentaliste che porta avanti, scatenando la reazione sdegnata dei parlamentari Dalit del BJP, che hanno invocato un intervento del premier Modi.
E quando dopo cinque giorni ha finalmente rotto il silenzio commentando i fatti di Hyderabad, Modi ha ribaltato la posizione finora assunta dal suo partito e la narrazione del tragico evento che ha scosso il paese portando a galla le discriminazioni che il sistema castale continua a implicare.
“Madre India ha perso un figlio”, ha dichiarato con voce commossa alla platea di studenti dell’Ambedkar University di Lucknow, “Oltre le ragioni, oltre la politica, resta che una madre ha perso suo figlio. Posso sentirne il dolore”. E quando voci di protesta si sono levate nella sala, gli studenti che gli hanno gridato “Modi go back!” sono stati allontanati dalla security.
La virata di Modi a protezione degli “intoccabili” è interpretata da molti analisti come un disperato tentativo di riconquistare la fiducia dei Dalit (circa 180 milioni di persone) e non alienarsi due importanti bacini elettorali del suo partito: le basse caste e i giovani. Intanto giovedì l’Università di Hyderabad ha revocato la sospensione degli altri quattro attivisti ancora accampati in tende davanti all’università, che hanno bruciato la circolare chiedendo a gran voce le dimissioni del VC Rao.
In un’intervista, il compagno di stanza di Rohith ha commentato così il gesto del giovane attivista, “Credo sentisse che qualcuno doveva morire perché le cose cambiassero, e l’ha fatto”. E la morte di Rohith, immolatosi per la lotta di casta, ha già assunto i contorni di una questione dalle conseguenze durature.