di Clara Capelli e Antonio Marafioti
La copertura mediatica generalista sulle primarie democratiche e repubblicane statunitensi è stata in buona parte dominata dalle candidature dell’influente eterna seconda Hillary Clinton da una parte e del palazzinaro miliardario Donald Trump dall’altra.
Se la competizione fra i Repubblicani – benché largamente dominata da Trump al momento – è pressoché percepita come aperta a differenti scenari, nella compagine democratica è parso da subito ovvio (e ancora tale è l’opinione dominante) che a vincere sarà Clinton: chi può competere con la sua carriera e la sua esperienza, la sua abilità a mantenersi sulla scena politica senza scadere mai e, fatto non irrilevante, l’appoggio di cui gode fra le lobby del potere politico ed economico? È giunto il momento di Hillary e si ha come l’impressione che non valga nemmeno la pena di sfidarla seriamente.
Gli ultimi sondaggi hanno però riservato qualche sorpresa. Il governatore del Maryland Martin O’Malley resta sempre più indietro, ma il senatore indipendente del Vermont, il “socialista” Bernie Sanders avrebbe ridotto sensibilmente il margine che lo separa da Clinton, in particolare in Iowa e New Hampshire, fra i primi Stati dove si voterà.
La vittoria di Hillary Clinton continua a essere data per certa, eppure questi sondaggi hanno restituito un poco di attenzione e credibilità a Bernie Sanders, il candidato fuori dagli schemi sostenuto da diversi attivisti dei movimenti OccupyWallStreet e BlackLivesMatter. Eccentrico populista alla stregua di Trump per alcuni, folle che vuole instaurare il comunismo negli Stati Uniti per altri, “Bernie” racconta con la sua corsa per le primarie democratiche – indipendentemente dalle possibilità di vittoria – una storia profondamente “americana”, di quello slancio verso il cambiamento, a volte tinto di colori eroici e solenni, che spesso finisce per limitarsi a limare qua e là i contorni del Sogno Americano.
Nato a Brooklyn nel 1941, Sanders è espressione di una certa borghesia liberal newyorchese, intellettuale e progressista, a metà tra Katie e i suoi compagni in Come eravamo e i personaggi di Manhattan. Membro della Young People’s Socialist League, negli anni Sessanta e Settanta è un attivo militante per i diritti civili e per diversi movimenti pacifisti.
Stabilitosi in Vermont alla fine degli anni Sessanta, vi spende pressoché tutta la sua carriera politica come indipendente. Benché si sia quasi sempre allineato alle posizioni dei Democratici in sede di voto, il suo rimanere di fatto un outsider è espressione della sua critica verso quei meccanismi di potere all’interno di entrambi i partiti – Democratico e Repubblicano -, che rendono la politica ancillare alle ambizioni di chi la fa e agli interessi delle lobby economico-finanziarie. Dopo tre stagioni di House of Cards dovrebbe essere piuttosto chiaro ciò cui si riferisce.
In quanto indipendente, Sanders non riesce a farsi eleggere né come governatore né come senatore, ma nel 1981 diventa sindaco di Burlington (una delle principali città dello Stato), carica che ricoprirà fino al 1989, quando decide di candidarsi al Congresso. Nel 2006 viene eletto senatore, sempre come indipendente, per poi essere riconfermato nel 2012 a larghissima maggioranza. Risultati senza dubbio degni di nota se si considera che Bernie non dispone delle risorse né della macchina elettorale dei due partiti protagonisti della politica statunitense.
Il momento di svolta nella carriera di Sanders è l’autunno 2011, quando il senatore del Vermont appoggia il movimento Occupy Wall Street. Quattro anni dopo lo scoppio della crisi finanziaria, molti statunitensi scoprono la disuguaglianza e intuiscono che il Sogno Americano vale solo per l’1% di loro, per quegli “avidi ladri senza scrupoli” – così li definisce Sanders stesso – che pur avendo provocato la crisi economica continuano a controllare gran parte della ricchezza del Paese.
La regolamentazione della finanza diventa uno dei cavalli di battaglia di Bernie, un punto chiave che lo oppone politicamente non solo ai Repubblicani ma anche a molti Democratici, differenziandolo di conseguenza come una personalità realmente impegnata per la lotta a un intero sistema la cui struttura è ormai incapace di rispondere a promesse di democrazia sostanziale
Nel 2015 arriva la decisione di Bernie di correre per le primarie democratiche. Molti l’hanno accolta come una scelta suicida e bizzarra; il senatore del Vermont non ha le risorse né l’esperienza per sfidare Hillary Clinton, per non parlare delle sue posizioni giudicate troppo populiste se non addirittura radicali da buona parte dello spettro politico degli elettori, per i quali la parola “socialista” si associa spesso a oppressione e autoritarismo egualitario.
Sanders si è però distinto durante la campagna per uno stile molto pacato e garbato che ha saputo vincere alcune delle perplessità e resistenze iniziali. Non ha mai ceduto alla tentazione di screditare la rivale Clinton sul piano personale facendo riferimento agli scandali in cui è coinvolta e, riuscendo evidentemente a toccare alcuni nervi scopertisi negli Stati Uniti dopo la crisi finanziaria, si è guadagnato crescente interesse.
Il pericoloso socialista, il populista rosso, porta in realtà avanti una linea economica che si rifà alla socialdemocrazia e al welfare state di marca europea, insistendo sulle garanzie in termini di istruzione e sanità. Se a un europeo le dichiarazioni del senatore del Vermont possono suonare ragionevoli e non particolarmente radicali, negli Stati Uniti affezionati alle narrazioni dei Pilgrim Fathers, della frontiera e del self-made man non è tuttavia facile rendere accettabili simili idee. Anche le proposte di raddoppiare il salario minimo federale da 7,25 dollari a 15 dollari l’ora e aumentare la tassazione alle fasce di reddito più elevate – punti chiave del programma di Bernie – stanno incontrando non poche resistenze per i timori che questa misura potrebbe avere sui costi per i datori di lavoro e sulla possibilità di “fare business”.
Per quanto riguarda la finanza, Sanders ha ricevuto da poco il sostegno di 170 economisti, i quali – coordinati da Robert Reich (University of Berkely, California, tradizionalmente un’altra roccaforte del pensiero progressista) – hanno sottoscritto una lettera a favore della sua proposta di regolamentare in modo più articolato le istituzioni finanziarie. Dall’altra parte, Clinton ha saputo astutamente rispondere con una proposta non necessariamente più radicale di quella di Sanders, ma comunque assai più articolata; il tesoriere della sua campagna è l’ex dirigente Goldman Sachs, Gary Gensler, che bene conosce i mondo della finanza e che si è distinto negli ultimi anni per il suo lavoro a favore della regolamentazione del settore senza però mettere in discussione il ruolo che esso riveste agli occhi di molti per la crescita e la leadership degli Stati Uniti.
Tale questione tocca un nodo scoperto della campagna di Bernie, il cui programma al momento riceve sì un riscontro positivo ma si accompagna di rado a una chiara strategia sulla loro attuazione. Anche in politica estera Sanders ha espresso idee molto vaghe, rimanendo sotto questo aspetto in una posizione di debolezza rispetto all’ex Segretario di Stato Clinton.
Bernie Sanders, l’indipendente settantaquattenne che sfida il sistema politico ed economico statunitense per un cambiamento più giusto, finisce per rimanere in buona sostanza inquadrato in questo stesso sistema, anche per la difficoltà di far arrivare certe idee al generale sentire americano. L’esito delle primarie ci saprà dire cosa vogliono per sé gli Stati Uniti, molto spesso incapaci di immaginare un cambiamento che si spinga oltre la frontiera del sogno in cui credono ancora di trovarsi.
«Favoloso, lo adoro!». Hillary, dal suo canto, non cede alla doppia tentazione di aggredire Sanders e di superarlo a sinistra. L’ex Segretario di Stato di Obama mette, invece i guanti bianchi e opta per la via del più totale fair play. Correva l’anno 1979 quando divenne una delle più giovani first lady di uno stato americano, quell’Arkansas in cui il marito Bill si insediò come governatore e vi rimase fino al 1992. Poi la scalata verso Washington e l’arrivo alla Casa Bianca come secondo presidente democratico più amato di sempre, dietro solo a F.D. Roosvelt. Cerimoniali e prassi di governo l’hanno sempre accompagnata anche nei momenti più difficili della propria vita privata, che i media e il Congresso resero di colpo pubblici. Il 1998 fu l’anno del Sex Gate che coinvolse il marito e lo costrinse a deporre, prima volta nella storia, davanti alle telecamere di tutto il mondo in quello che al tempo sembrò essere un processo unanime contro il comandante in capo. Hillary tenne lontane le voci fino alla fine e anche davanti alle ammissioni pubbliche del coniuge affrontò lo scandalo a testa alta restandogli sempre vicino. Come fece nel 2004 quando cancellò la sua agenda politica per seguire la delicata operazione al cuore di Bill.
Famiglia, politica e savoir faire da grande avvocato. Sono i tre pilastri della personalità di Hillary che negli anni è riuscita ad affrancarsi dal passato e a diventare il pilastro portante del clan Clinton. Una macchina da guerra elettorale che ha portato l’ex first lady a ottenere nelle primarie democratiche del 2008, quasi 273mila voti popolari in più rispetto a Barack Obama, che vinse solo dopo aver ottenuto più preferenze dei grandi elettori.
Sconfitta di misura, non si lanciò in polemiche e garantì da subito il sostegno della propria ala del partito al ticket Obama-Biden. Bisognava seppellire una volta per sempre l’esperienza, l’incubo, dei due mandati di George W. Bush, ristabilire una normalità nelle relazioni internazionali con gli altri paesi e ritirare le truppe dall’Iraq e dall’Afghanistan. Forse è anche per questa parte del programma che Obama decise di affidare a lei il delicato compito di Segretario di Stato.
C’erano da superare otto anni di disastri diplomatici compiuti dal precedente establishment. Gli Stati Uniti, sotto peggiore guida repubblicana di tutti i tempi, avevano aumentato la loro aggressività internazionale all’indomandi dell’11 settembre.
Le guerre di Bush figlio contribuirono, insieme alla mancanza di regolamentazione dei mercati finanziari, a portare il Paese sull’orlo del baratro. E se la prima eredità casalinga toccata a Obama fu la grossa crisi finanziaria scoppiata pochi mesi prima del suo insediamento, quella internazionale fu un’immagine del proprio Paese che mal si prestava a ogni possibile distensione con il resto del mondo. Gli States, per il mondo, tornarono a essere i fautori di una nuova tattica post-colonialista che faceva delle risorse petrolifere altrui il fulcro della propria potenza. Il compito della Clinton non fu facile – è il Segretario di Stato con il record di viaggi diplomatici, oltre 100 – e spesso portò a numerosi insuccessi tra i quali la mancanza di visione politica nei confronti delle primavere arabe; e una dura presa di posizione contro i negoziati nucleari con l’Iran. Unica donna nella situation room durante il blitz dei navy seals che terminò con l’uccisione di Osama Bin Laden, Hillary non nascose le lacrime quando durante un altro 11 settembre, quello del 2012, un attacco alla sede consolare statunitense a Bengasi portò alla morte dell’ambasciatore Christopher Stevens: un omicidio del quale, ha sostenuto più volte, si sente personalmente responsabile. La determinazione dimostrata, nel bene e nel male, durante l’esercizio della più alta carica da lei ricoperta ha comunque portato il 64 percento degli americani a dichiararsi soddisfatti dell’operato della Clinton al termine del mandato.
Poi il seggio di senatrice di New York, il relativo silenzio pubblico e la preparazione per un nuovo tour de force verso la presidenza con i giornali che la opposero in un primo momento ai Bush, che questa volta avrebbero schierato Jeb, quell’ex governatore della Florida su cui pesa ancora il sospetto dei brogli sull’election recount delle presidenziali 2000 in cui il fratello George sfilò la presidenza dalle mani di Al Gore; poi alla banda di Donald Trump posizioni che, spingendo su posizioni populiste e xenofobe, pare conquistarsi lentamente la nomination ufficiale del Gop.
Il 12 aprile 2015, data in cui annunciò la sua seconda corsa presidenziale, Hillary non conosceva ancora il nome dei suoi principali sfidanti dentro e fuori il partito. Si presentò con pochi concetti e una frase: “Ogni giorno gli americani hanno bisogno di un campione. Io voglio essere quel campione”. Da allora la macchina elettorale ha raccolto circa 30 milioni di dollari per la prima parte di campagna e l’appoggio incondizionato del presidente Obama che ultimamente pare deciso a lasciare, con il decreto sulle armi, un ultimo segno tangibile della sua politica. Intanto i voti elettorali danno la Clinton in netto vantaggio su scala nazionale. Ma in Iowa, primo stato in cui si vota il prossimo 1 febbraio, le percentuali vedono l’ex first lady avanti solamente di un punto rispetto a Sanders che, per Cbsnew, sarebbe addirittura in vantaggio (47% contro 46%). E allora ecco uscire con decisione gli intramontabili classici Clintoniani sulla lotta ai privilegi dei più ricchi e la tutela per la middle class, le famiglie, le donne e, last but not least, la comunità LGBT, un punto questo in cui la candidata non aveva mai dato prova di totale empatia.
Chissà che questo non possa essere considerato un risultato del “Change” promesso da Obama nella campagna del 2008. Due candidati dell’alta borghesia che si sfidano alla sinistra del partito dell’asinello su temi quali la difesa dei diritti civili e l’apertura di una nuova frontiera della politica americana.
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