di Luca Bisaschi
«There is something rotten in the State of Denmark» (C’è del marcio in Danimarca). Così si rivolge Marcello ad Amleto nella famosa opera shakesperiana. Nella trama della tragedia, la Danimarca è percossa da sommosse e rivolte, un regno fondato sul ferro e sul sangue, lontano dall’essere quel piccolo paradiso nordico che viene spesso immaginato al giorno d’oggi. Numerose statistiche raffigurano la Danimarca come uno Stato in cui l’unico problema sono i gelidi inverni; L’Economist la classifica come il terzo paese migliore in cui vivere, Transparency International la definisce come il paese meno corrotto al mondo ed secondo un recente studio i pensionati danesi sono le persone più “felici” della Terra. Non male per uno Stato di 5 milioni di abitanti, con un reddito pro capite di 37.000 dollari, da sempre all’avanguardia sulla tutela dei diritti dei cittadini. La storia danese è costellata da record: primo paese a firmare la Convenzione di Ginevra sui rifugiati nel 1951, fra i primi a legalizzare le unioni omosessuali. Durante l’occupazione nazista, i Reali danesi invitarono la popolazione ad indossare l’infame stella giudaica per impedire alle SS di individuare gli ebrei. Le istituzioni non si piegarono alla dominazione tedesca e riuscirono a salvare il 95 per cento della comunità ebrea locale imbarcandola clandestinamente verso la Svezia.
Insomma, la citazione dell’Amleto di Shakespeare sembra piuttosto inappropriata in quanto è difficile trovare del “marcio” nella Danimarca contemporanea. Eppure, questo piccolo paradiso dei Diritti si trova ora ad avere una delle leggi sull’immigrazione fra le più severe di tutta Europa.
Vale la pena precisare che l’euroscetticismo non è un fenomeno nuovo nello Stato dello Jutland; la Danimarca, come il Regno Unito, ha spesso abusato del “opting-out”, uno strumento legislativo che permette di non rendere applicabili normative europee vincolanti. La Danimarca non ha ratificato l’Unione Monetaria e soprattutto non fa parte della zona Schengen. Ora, però, pare che questo distacco dall’integrazione europea si stia accentuando sempre di più. Come molti Paesi Nordici, si è tenuta distante dai problemi economici e finanziari che hanno travolto l’Europa negli ultimi anni: non facendo parte della zona Euro, ha evitato scaltramente le complicazioni riguardanti le crisi economiche dell’Europa Meridionale. Tuttavia, durante gli estenuanti negoziati per memorandum greco, il governo danese ha più volte ribadito la ferma contrarietà a partecipare a qualsivoglia fondo di salvataggio. Non è un nostro problema. I campioni del welfare, il modello di Stato sociale ammirato in tutto il mondo non ha mosso un dito mentre la crisi e le politiche di austerità distruggevano il welfare state degli altri stati europei. La solidarietà sembra non essere più di casa nella patria di Andersen.
La questione dei rifugiati è riuscita a mettere a nudo le debolezze dell’Europa, nonché la mancanza di una politica comune in grado di fornire reali soluzione ad un problema che si piega troppo facilmente a strumentalizzazioni politiche. L’egoismo nazionale ha prevalso; in qualche modo, tutti gli Stati hanno giocato allo scarica barile. La Francia, sotto il pretesto della minaccia (reale) del terrorismo, ha prolungato uno stato d’emergenza che serve anche per sospendere una serie di diritti senza destare troppo clamore. Il Regno Unito, in pieno dibattito referendario, fa la solita politica del “due piedi in una scarpa”. L’Italia e la Grecia, nella loro sfortunata posizione economica e nella delicata situazione finanziaria, spesso si mostrano inefficienti nella gestione dei flussi migratori. Anche la Germania, spesso definita come la bussola europea, sbanda: le indecisioni di Angela Merkel dovute alle divisioni del suo partito hanno spesso aggravato una situazione già critica.
Insomma, nessuno Stato europeo brilla nella gestione di questa crisi, ma nessuno era arrivato a tanto. Il sequestro forzato dei beni dei migranti richiama sconcertanti similitudine con le misure messe in atto dalla Germania nazista. E fa ancora più impressione se ad attuarle è uno Stato che è sempre stato considerato come un piccolo paradiso dei diritti.
L’attuale governo danese è retto da una sorta di “gentlemen’s agreement” fra il partito di maggioranza relativa Venstre, liberal-conservatori, e altre formazioni parlamentari. Fra queste spicca il Dansk Folkeparti, un partito nazionalista di stampo euroscettico molto simile alle nuove destre nazionali europee. C’è chi sostiene che questa nuova legge, che la stampa britannica ha ribattezzato “la legge dei gioielli”, rientri nel gioco politico che mantiene gli equilibrinel governo del premier Lars Løkke Rasmussen. Sarebbe però troppo facile attribuire tutte le responsabilità alla destra nazionalistica; Bo Lidegaard, caporedattore del quotidiano danese Politiken, ha scritto sul Financial Times che la “legge dei gioielli” ha l’appoggio anche dei SocialDemocratici, nonostante quest’ultimi abbiano, sulla carta, posizioni più miti nei confronti dell’immigrazione. La confisca degli oggetti di valore non è che è una delle misure introdotte da questo nuovo provvedimento. Ander Ledakari, responsabile della Croce Rossa danese, sottolinea che vi è il chiaro intento di spaventare i richiedenti asilo. Infatti, fra le novità introdotte vi è un prolungamento da uno a tre anni del tempo d’attesa per iniziare le lunghissime procedure volte al ricongiungimento familiare. Inoltre, i migranti non dovranno soltanto dimostrare di fuggire da situazioni di imminente e grave pericolo ma anche di “essere disposti ad integrarsi ed a riconoscersi nei valori dello stato danese”. Questo criterio, piuttosto vago e indefinito, probabilmente avrà semplicemente l’effetto di rendere più difficile il riconoscimento di richiedente d’asilo.
Il fatto che gli oggetti dall’alto valore affettivo (come fedi matrimoniali e gioielli di famiglia) siano esenti dalla confisca sembra un maldestro tentativo di rendere meno aspra questa criticata legge. Jakob Ellemann-Jensen, portavoce del partito di governo Venstre, ha spiegato che non vi è alcun intento di chiudere le porte ai rifugiati. Una volta giunti in Danimarca, i migranti usufruiscono del welfare state come i cittadini danesi. Lo Stato si prende cura di loro e dunque è giusto e comprensibile chiedere un contributo. «Indipendentemente che tu sia danese o meno, se hai i mezzi per pagarti per vitto e alloggio, allora è giusto che tu lo faccia», ha riassunto lo stesso Jensen. Al di là della questione morale, questa legge sembra innanzitutto inefficiente. Considerando che la maggior parte dei rifugiati scappa dalla guerra e dalla distruzione, spendendo gran parte dei propri averi per sostenere gli altissimi costi del disperato viaggio, appare piuttosto irrealistico che essi riescano ad arrivare in Danimarca con cospicui patrimoni personali. Anche se fosse, da un punto di vista meramente finanziario, è assai difficile che tramite la confisca degli oggetti di valore si riescano a trovare le coperture necessarie per i costi della gestione dei flussi migratori.
Inoltre, è davvero necessario? Un paese con i redditi pro capite fra i più alti del mondo ha davvero un bisogno stringente di rivendere al banco dei pegni beni confiscati dallo scarso valore di mercato? E la famosa proporzionalità dei contributi sociali sulla quale si base il tanto decantato modello nordico che fine ha fatto?
Un’analisi superficiale, senza dover spulciare i conti pubblici danesi, basta per mostrare come le ragioni economiche alla base di questa legge siano piuttosto deboli. La crisi dei rifugiati rischia di far crollare il progetto unitario europeo forse ancora di più di quella economica. Le strumentalizzazioni, che vanno dalla chiusura serrata delle frontiere alla totale apertura, sono inutili e pericolose. Misure come quelle appena descritta non fermeranno l’afflusso dei profughi. Ostacoli burocratici, confische forzate, razzismo crescente sono problemi minori per chi scappa dai bombardamenti e dai massacri. Possiamo sforzarci quanto vogliamo di rendere l’Europa ostile ai migranti ma quest’ultima resterà sempre più accogliente dell’inferno da cui scappano. La legge danese non riguarda solo i migranti, bensì tutti i cittadini europei. Promulgando tale legge, la Danimarca ha mostrato tutti i limiti del suo modello: un welfare state ottimo per gli insiders, inaccessibile per gli outsiders. Secoli più tardi e sotto altre forme, il marcio di cui parlava Shakespeare sembra riemergere.