di Cristina Orsini
Dopo una mezz’ora dalla cittadina di Tindouf, la macchina si ferma. Una linea grigia di asfalto taglia in due un mare piatto di nulla fino ad un orizzonte sfocato. Un uomo con una logora uniforme militare ed il volto segnato da una vita passata sotto il sole cocente del Sahara alza l’asta del posto di blocco con un sorriso timido e sincero che lo fa improvvisamente sembrare un ragazzino. La polizia algerina che scorta il convoglio delle Nazioni Unite fa un’inversione a U, e una Toyota bianca con la bandiera Saharawi inizia a fare strada.
Qui, una linea immaginaria segna l’ingresso nella Repubblica Araba Democratica Saharawi (RADS): una chiazza di terra donata dall’Algeria ai rifugiati Saharawi scappati dal conflitto tra il Marocco e il fronte POLISARIO scoppiato nel 1975 ed irrisolto fino ad oggi.
Infatti, mentre il conflitto è stagnato in negoziazioni senza fine tra l’oblio di molti e gli interessi di alcuni, questi rifugiati sono rimasti imprigionati nella nebulosità della vita di confine in un polveroso nulla per quarant’anni e tre generazioni. Pochi hanno vissuto la guerra sulla loro pelle, ma tutti ne subiscono le conseguenze.
Passato il posto di blocco, il territorio amministrato dalle autorità Saharawi si rivela essere un regalo in un pacco vuoto. Un pacco pieno di sabbia piatta, annerita dallo smog delle Toyota che scortano il personale internazionale avanti e indietro ogni giorno. L’aria è salata, e le carcasse di macchine vecchie abbandonate una sull’altra sembrano formare delle grottesche installazioni artistiche. Questa sabbia non sembra poter essere la stessa che forma dune mozzafiato solo qualche chilometro più in là.
Allo stesso tempo, questo pacco vuoto offre ai rifugiati Saharawi uno spazio dove poter esistere. Qui esistere vuol dire allevare capre, rivendere sigarette e tonno in scatola, e piangere “i martiri” dall’altro lato del confine. Esistere vuole dire dipendere dai fondi delle organizzazioni internazionali che coprono tutti i bisogni elementari come cibo, acqua potabile, cure mediche e accesso all’educazione.
Se si prendono in considerazione solo i bisogni basilari, i rifugiati Saharawi potrebbero sembrare non vivere male in confronto ai rifugiati in altre parti del mondo. La loro è un’emergenza umanitaria che è diventata una routine normalizzata, interiorizzata, e perfino istituzionalizzata.
La popolazione Saharawi dei campi di Tindouf ha un governo funzionante, con i suoi ministri e il suo sistema di amministrazione del territorio. Ma questo governo non ha un suo reddito, i suoi ministri vivono in case di fango, e la loro repubblica non esiste sulla mappa mondiale.
Rispetto a 40 anni fa, molte cose sono cambiate. Un medico racconta come, quando era un ragazzino, i bambini morivano per le infezioni più innocue. Oggi, spiega orgoglioso, i Sharawi riescono a vaccinare la maggior parte dei nuovi nati grazie all’aiuto di organizzazioni internazionali come l’UNICEF. La frequentazione della scuola elementare raggiunge quasi il 100 per cento. Gli studenti sognano carriere che gli permetteranno di contribuire allo sviluppo del loro popolo, ed alcuni ricevono borse di studio per l’Algeria, la Spagna, l’Italia …
Ma quando questi giovani Saharawi finiscono gli studi, non avendo il permesso di lavorare in Algeria, hanno poche possibilità di impiego ad aspettarli.
Possono diventare insegnanti nelle stesse scuole dove hanno imparato a scrivere i loro genitori e a volte i loro nonni, dottori per distribuire vaccini donati dalla comunità internazionale, o membri di un governo non riconosciuto per amministrare un territorio fatto di sabbia e case di fango.
E che cosa fanno gli altri? Dove sono i giovani uomini in questi campi rifugiati dove le donne e i bambini costituiscono il 70 per ceto della popolazione? Secondo Baibat, 15 anni, molti dei suoi amici hanno lasciato la scuola per guadagnare da vivere per loro e per la loro famiglia. Con la saggezza di un bambino che è cresciuto dove nulla è dato per scontato, Baibat vorrebbe dirgli che «l’istruzione può portare ai soldi, ma i soldi non porteranno mai all’istruzione». Gli amici di Baibat hanno probabilmente lasciato i campi per entrare a far parte del mercato nero, in una parte del mondo dove la parola mercato nero spesso vuol dire traffico illegale, crimine, e sfruttamento. Altri sembrano andare “al fronte”, nel Sahara occidentale amministrato dal Marocco, per unirsi alle manifestazioni per chiedere diritti, sviluppo socio-economico, e l’indipendenza. Altri ancora, rimangono seduti all’ombra dei soffitti improvvisati dei campi rifugiati che vanno ricostruiti ad ogni alluvione o tempesta di sabbia.
Immobilizzati da una noia irrequieta aspettano, costantemente, un cambiamento. Per tutti, l’istruzione diventa un fardello pesante da portarsi dietro.
La speranza di cambiamento sembra essere l’unica cosa che permette ai rifugiati a Tindouf di vivere un’esistenza che non sia mera sopravvivenza. Quando Hassina, 16 anni, viene invitata a raccontare che cosa vorrebbe cambiasse nella sua vita nei campi, pensa inizialmente al fatto che lei e i suoi compagni di classe non hanno computer per le lezioni di informatica, piante per scienze naturali, né attrezzature sportive per educazione motoria. Poi, dopo un momento di breve riflessione, dice: «Anzi, lasciate stare. Non ci serve nient’altro qui, solo la nostra indipendenza». Sogna di diventare un dottore, e il suo compagno di classe, Baibat, vuole essere un pilota per una linea aerea inesistente di un paese che esiste solo in teoria. Diversamente da Hassina e Baibat, alcuni giovani Saharawi potrebbero esseri stanchi di questo misto di speranzosa irrequietezza e determinata attesa.
La possibilità della radicalizzazione dei giovani Saharawi è un fantasma che corre nelle menti della popolazione e nei discorsi dei ministri Saharawi ai membri dei paesi e delle organizzazioni che gli vengono in visita. Alcuni avvertono che questa radicalizzazione potrebbe anche portare nuovi adepti alle organizzazioni terroristiche che circolano nella regione. Che sia uno spettro usato per richiamare l’attenzione in un’epoca in cui la radicalizzazione islamica sembra essere la principale fonte di preoccupazione dei poteri della terra? Certamente, chiunque abbia visitato questi campi e respirato la loro aria intrisa di speranza disperata può capire perché dei giovani Saharawi ben istruiti ma senza prospettive di impiego pensino che sia meglio «lottare che morire come cani in una prigione a cielo aperto». In 40 anni di stagnazione totale alcuni poi pensano che «il mondo esterno guarda solo quando c’è il sangue». Con un senso disarmante di impotenza ti ritrovi a sperare che la speranza duri, che la resistenza rimanga fatta di non-violenza. Pensi a quel soldato che incuteva timore al posto di blocco, e a come il suo sorriso sincero ha frantumato la sua aria seria trasformandolo in un ragazzino.
I rifugiati Saharawi sono rimasti incastrati in un gioco di potere internazionale, di interessi economici e strategici che hanno fatto del Sahara occidentale un “territorio non autonomo” e un buco nero nella storia della decolonizzazione. Questo non vuole dire che creare uno nuovo stato indipendente sia l’unica soluzione.
Avrebbe senso creare un altro staterello quando il Maghreb ha bisogno di più unità e collaborazione? Quando, dal Marocco alla Tunisia, la lingua parlata è una variazione dello stesso dialetto? Quando alcuni osano ancora sognare una forma di unità dei tre paesi? Se il diritto all’autodeterminazione non è un sinonimo di secessione, vuol dire prendere sul serio i bisogni e i diritti di una popolazione. La missione dell’ONU per l’organizzazione di un referendum sullo stato del Sahara occidentale (MINURSO) ha compiuto 25 anni: nessun referendum è in vista e i rifugiati Saharawi continuano ad essere imprigionati nella dipendenza dagli aiuti internazionali. L’Unione Europea continua i suoi accordi di pesca con il Marocco in acque al largo del Sahara Occidentale. E gli stati uniti continuano a lodare il Re Mohammed VI per le sue proposte vuote di autonomia.
Nel frattempo, le idee per soluzioni sostenibili (e dunque a lungo termine) per l’economia dei campi Saharawi, come progetti per la coltivazione delle terre desertiche di Tindouf, continuano ad essere respinte. Nella psicologia di una popolazione rifugiata la “sostenibilità” vuol dire accettare che la vita al confine è diventata l’unica possibilità, vuol dire smettere di aspettare e di sperare, smettere di esistere ed iniziare a sopravvivere.
Tindouf è diventato un esempio di scappatoia umanitaria cronica: ci si concentra sull’importanza di fornire cibo, acqua, vaccini ed istruzione (che di fatto sono importanti) mentre la politica viene messa da parte, e i diritti e i bisogni dei Saharawi non vengono presi sul serio – ormai da 40 anni. Ma allo stesso tempo, dopo 40 anni, molti governi e fondazioni preferiscono donare a nuove emergenze, cosicché mantenere il livello di aiuti diventa sempre più difficile.
Alla fine della giornata, quando la jeep bianca attraversa il posto di blocco ancora una volta, ma nella direzione opposta, la bandiera dell’Algeria vola alta nel cielo rosaceo. Non c’è nessun timbro sul passaporto, solo un po’ di sabbia sulle scarpe. Ti chiedi: sono davvero andata da qualche parte? Se uno strano insieme di impotenza, noia irrequieta, e ingenuo senso di attesa ti riempiono il corpo stanco, allora si – sei stata nella Repubblica Araba Democratica Saharawi, sei stata in un Paese che non esiste.