di Gabriele Battaglia, tratto da China Files
Un patto che non è d’acciaio, ma liquido, sia nel senso che si basa sul petrolio, sia che può espandersi, sia che c’entra con il denaro contante. È quello tra Mosca e Pechino. La Russia è diventata infatti il maggior fornitore di greggio della Cina, affiancando e per alcuni sopravanzando l’Arabia Saudita. A oggi, entrambi i produttori detengono una quota che si aggira intorno al 13-14 per cento delle importazioni cinesi, ma si dice che i russi abbiano messo la freccia. In effetti, marciano spediti: basti ricordare che nel 2010 si ritagliavano una fetta del 7 per cento, mentre i sauditi stavano al 20.
A favorire il boom del petrolio russo in terra cinese, c’è un fatto molto semplice: Pechino e Mosca commerciano nelle rispettive valute, mentre i sauditi si ostinano a fare affidamento sul dollaro.
Il desiderio della Cina di internazionalizzare il renminbi e di emanciparsi gradualmente dal ricatto della Federal Reserve, gioca quindi a favore di Mosca. Ad accelerare il processo, c’è stata la recente accettazione dello yuan come valuta di riserva del Fondo Monetario Internazionale. La Russia ha così annunciato il varo di bond denominati in yuan per il valore di un miliardo di dollari. Negli ultimi anni, le banche russe hanno emesso obbligazioni in renminbi a Hong Kong, ma questa sarebbe il primo lancio sul mercato di Mosca. I nuovi bond potrebbero tra l’altro fare da leva per ulteriori operazioni del genere in tutta l’area Brics, con una relativa marginalizzazione del dollaro.
L’altro fatto che favorisce le importazioni di greggio russo in Cina è il deprezzamento del rublo: a gennaio, la valuta di Mosca è scesa a 80.68 per un dollaro Usa, il minimo storico da quando fu rivalutata nel 1998. Insomma, l’oro nero va via con niente.
La liaison tra russi e cinesi non è quindi una luna di miele politica, contrariamente a quanto generalmente si pensi: se Putin non perde occasione per magnificare la fratellanza tra le due sponde dell’Amur, i cinesi sono cauti – per non dire inorriditi – dalla sua assertività in Ucraina e in Siria. Certo, il loro cuore batte per lui, ma le fughe in avanti del leader russo in politica internazionale, la conflittualità ostentata, non sono parte né dello stile diplomatico, né degli interessi concreti cinesi, che con tutti vogliono fare business, al riparo da fatti imprevedibili.
La liquidità espansiva della liaison petrolio-centrica si manifesta nel rinnovato commercio bilaterale.
Un articolo del China Daily magnifica lo scambio transfrontaliero nella provincia del nord-est cinese – quasi Siberia – che negli anni Sessanta fu teatro di scontri di confine tra i due colossi socialisti giunti ai ferri corti: «Alimenti russi come cioccolato, caramelle, miele e pane sono diventati uno stile di vita nella provincia dell’Heilongjiang, una delle zone più fredde del Paese, dove le importazioni sono in piena espansione». Capito? Uno «stile di vita».
«Sulla scia del deprezzamento del rublo – si legge ancora – il cibo importato dalla Russia è più economico, il che ha indotto un aumento delle vendite». È anche così che Mosca aggira le sanzioni internazionali.
Il vice Primo ministro russo Arkadij Dvorkovich ha dunque preso la palla al balzo e a metà gennaio è volato a Hong Kong per aprire una nuova fase. La Zona Amministrativa Speciale della Cina e Mosca hanno firmato un accordo di doppia imposizione fiscale, in base al quale il pagamento degli interessi sarà esente da ritenuta alla fonte. Al di là dei tecnicismi, questa mossa rende gli asset russi – già appetibili proprio per la diminuzione del valore del rublo – ancora più attraenti.
Ma gli investitori in borsa si fidano di questa Russia che i media corporate occidentali ci descrivono come traballante?
Donald Gasper, un analista residente proprio a Hong Kong, ritiene di sì: «A favore della Russia c’è un debito estero basso, una politica fiscale conservatrice, un tasso di cambio flessibile, la sua posizione di creditore netto nei confronti di altri Paesi e, naturalmente, il suo ricco patrimonio di risorse naturali».
Adesso, è diffuso il parere che se Riad vuole riconquistare lo scettro di regina dell’export oltre Muraglia, deve procedere soprattutto con due mosse: accettare i pagamenti in Renminbi e comprare quote nelle principali raffinerie cinesi.
Nello sgomitare tra russi e sauditi, ci guadagna ovviamente la Cina, che può accedere a greggio poco caro, pregustando al contempo capitali freschi in arrivo per le proprie raffinerie; mentre il Renminbi assume sempre più statura internazionale.