Polaroid molto esplicite

A quindici anni dall’inizio della guerra al terrorismo, sembra già rimosso il peso di un’iconografia della violenza che inchioda gli Usa e gli alleati al loro fallimento

di Christian Elia

Mani, piedi. Gambe, volti. Una serie di 198 fotografie, rese pubbliche dopo la vittoria dell’American Civil Liberties Union, associazione Usa che si batte contro la tortura e le violazioni dei diritti civili, che ha costretto – in base al Freedom Information Act – il Pentagono a tirare fuori queste polaroid molto esplicite.

Secondo le fonti dell’Aclu, sarebbero più di 2mila quelle ancora non rese pubbliche, ma il Pentagono si appella alla sicurezza nazionale. Elemento che per Jameel Jaffer, responsabile legale di Aclu, conferma “i gravi abusi sui detenuti che sono avvenuti nei centri di detenzione militari in Iraq e Afghanistan, oltre che a Guantanamo, e la selezione delle foto rischia di minimizzare le responsabilità rispetto a quanto accaduto in questi anni”.

L’appuntamento, adesso, è per il 19 febbraio, data della nuova udienza della battaglia legale che l’Aclu porta avanti dal 2003. L’obiettivo è la pubblicazione di tutte le foto, anche se questa è una prima vittoria, rispetto al passato. I precedenti segretari Usa della Difesa, Leon Panetta e Robert Gates, avevano messo in atto un duro ostruzionismo, ma dopo la fine dell’amministrazione di George W. Bush qualcosa si era incrinato, fino alla nomina di Ashton Carter e all’autorizzazione per la pubblicazione delle prime foto.

Tutte le foto in questione, sono legate a 56 procedimenti interni alle forza armate per ‘condotta violenta’, e di questi almeno 14 hanno raggiunto una fase di ‘sanzione’ per i militari coinvolti. Anche se informazioni più dettagliate mancano, così come le foto in se per se non dimostrano nulla, essendo anche impossibile – al di là del singolo e inquietante segno fisico – riconoscere i volti dei detenuti.

La maggioranza delle foto, sarebbero state scattate nella prigione di Abu Ghraib, dalla quale nel 2004 partì lo scandalo delle torture dei militari Usa sui detenuti iracheni. Tra il 2004 e il 2006, undici militari Usa sono stati tradotti davanti alla corte marziale per abusi e violenze sui prigionieri. Il timore delle autorità Usa è proprio quello che diffondere altre immagini come quelle possa aumentare il “sentimento anti – americano” nel mondo.

Ma è proprio questo il punto. Perché ancora oggi, alla vigilia del 15° compleanno della fallimentare macchina da guerra ribattezzata ‘guerra al terrorismo’, che la classe politica dirigente degli Stati Uniti e dei suoi alleati non coglie quanto sarebbe utile un messaggio contrario.

Le immagini sconvolgenti di Abu Ghraib, le renditions – veri e propri rapimenti di persone ritenute coinvolte nelle reti internazionali del terrorismo, portate in paesi complici, dove torturarle fuori da ogni sistema giudiziario – gli abusi di Bagram, o Camp Bacca, gli incappucciati di Guantanamo, o di qualsiasi altra prigione ‘speciale’ abbia riguardato il post 11 settembre 2001 pesa come un macigno tra due pezzi di mondo.

Ancora oggi, dopo tanti anni, non cogliamo fino in fondo quanto siano state laceranti quelle fotografie. E ci ostiniamo a pensare che all’epoca del villaggio social globale ‘nascondere’ potesse essere la soluzione.

LE FOTO RESE PUBBLICHE GRAZIE DALLA BATTAGLIA LEGALE DI ACLU

La soluzione sarebbe proprio di mostrare come il senso di quello che alcuni si ostinano a chiamare Occidente risiede in un’associazione di avvocati per i diritti civili, che dopo tredici anni inchiodano il governo Usa alle sue responsabilità. Solo praticando diritti, solo mostrando la complessità delle società che per anni abbiamo vendute come migliori, restituiremmo un minimo di credibilità a noi stessi.

E invece tutto è dimenticato, tutti assolti, anche se coinvolti. Nessuno pagherà per un milione di morti, per torture, rapimenti e violenze, per foto orribili che è troppo facile derubricare all’azione di ‘poche mele marce’, perché la strategia di torturare per ottenere informazioni era avallata dalle sfere più alte della politica, dei servizi di intelligence e delle forze armate.

Oggi, quindici anni dopo l’invasione dell’Afghanstan e dell’Iraq, abbiamo un mondo profondamente più insicuro. Abbiamo più terroristi, più vittime, più guerre. E siamo pronti a portare di nuovo morte e dolore tra coloro che non c’entrano nulla.

Abbiamo perso la battaglia più grande: quella dei cuori. Ed erano tanti, che nel 2001 in Afghansitan e nel 2003 in Iraq si aspettavano l’arrivo dei liberatori. A loro, alla loro disillusione, dovremmo pensare. Perché dimostrando che siamo capaci di chiedere scusa, di affrontare le nostre responsabilità, lasceremo senza argomenti i predicatori dell’odio.

Una lunga scia di sangue è alle nostre spalle, un presente complesso è ogni giorno nelle nostre vite. Ma quelle tute arancioni, di prigionieri trattati come animali, anzi con meno diritti, sono uno di quei collegamenti necessari a leggere i fatti di oggi. Le tute dei prigionieri di Daesh, prima di essere sgozzati, hanno un messaggio da dare. Una vendetta, un monito, un insulto alla nostra idea di essere migliori. Andrebbe praticato il contrario.