India: la crociata nazionalista del BJP

Un movimento di protesta contro gli arresti arbitrari all’università e nel paese

di Maria Tavernini, da New Dehli

In queste ultime settimane in India si sta combattendo una battaglia importante per la democrazia e la pluralità, che sembra destinata a lasciare un segno indelebile.

Un movimento di protesta, pacifico e trasversale, ha coinvolto studenti, professori, giornalisti, intellettuali e cittadini comuni, uniti contro l’incursione delle autorità alla Jahawarlal Nehru University (JNU) di Delhi e contro l’arresto, lo scorso 12 febbraio, dello studente Kanhaiya Kumar con l’accusa di sedizione e cospirazione criminale. Una legge, quella contro la sedizione, che risale alla dominazione britannica, quando la corona doveva assicurarsi la lealtà delle colonie e reprimere le rivolte.

L’episodio, che ha trovato ampio spazio sui quotidiani locali e internazionali polarizzando l’opinione pubblica, ha portato molte testate a schierarsi dalla parte dei manifestanti, in supporto del fondamentale diritto alla libertà di espressione, brutalmente infranto dal braccio armato delle autorità.

Le manifestazioni a sostegno della JNU si sono rapidamente moltiplicate in tutti i campus del paese, in un periodo in cui diversi episodi hanno portato a galla l’intolleranza e la repressione del governo guidato dal nazionalista Narendra Modi verso qualsivoglia critica o dissenso.

Kumar, studente e presidente del collettivo di sinistra JNUSU, legato al Partito Comunista Indiano, è stato accusato di aver gridato slogan “anti-nazionali” durante una manifestazione per la morte del kashmiro Mohammad Afzal Guru, impiccato nel 2013 in relazione all’attentato al parlamento di Delhi nel 2001.

Kumar, denunciato da alcuni membri dell’Akhil Bharatiya Vidyarthi Parishad (ABVP), propaggine universitaria del partito al governo, il Bharatiya Janata Party (BJP), è stato prelevato dal campus universitario della capitale e rinchiuso nel carcere di Tihar. Era dal biennio ‘75-’77 che la polizia non varcava i cancelli dell’università, dal periodo conosciuto come “Emergency”, il regime autoritario instaurato dall’allora primo ministro Indira Gandhi.

Il ministro degli interni, Rajnath Singh, ha twittato che “chiunque canti slogan anti-indiani e metta in discussione la sovranità e l’integrità dello stato non sarà tollerato né risparmiato”. Nel susseguirsi di eventi, manifestazioni e dichiarazioni, a poco più di un mese dal suicidio del dottorando dalit Rohith Vemula all’Università di Hyderabad, l’accusa mossa a Kumar e ad altri cinque studenti della JNU, ha suscitato un accorato appello da parte di accademici e intellettuali di tutto il mondo che si sono uniti alla battaglia degli studenti della JNU per la libertà di pensiero e di espressione, soprattutto tra le mura di quella che dovrebbe essere l’arena naturale per il dibattito e lo scontro democratico delle idee.

L’impiccagione di Afzal Guru è un tema sensibile che si ascrive nell’annoso conflitto con il Kashmir a maggioranza musulmana, regione contesa tra India e Pakistan già dall’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1947 e la partizione dei due paesi. Molti separatisti kashmiri considerano Guru un martire e non pochi critici dell’opposizione accusano il governo indiano di non avergli garantito un giusto processo.

“La costituzione è chiara circa la libertà di espressione e questa non include il diritto di promuovere secessioni”, ha però dichiarato un portavoce del BJP, “slogan che inneggiano alla disgregazione nazionale non possono essere perdonati.”

A fargli subito eco, la ministra delle risorse umane, Smriti Irani – che si era distinta già durante le polemiche per la morte di Rohith – si è affrettata a dichiarare ai giornalisti che la nazione non può tollerare un insulto contro “Mother India”. E se già dall’inizio delle proteste erano stati sollevati forti dubbi su chi avesse realmente cantato slogan pro-Pakistan durante la manifestazione alla JNU dello scorso 9 febbraio, oggi sembra evidente che la macchinazione ai danni degli studenti bollati come pericolosi elementi “anti-nazionali” dall’attuale governo abbia del grottesco.

Col passare dei giorni sono emersi dettagli raccapriccianti che svelano il vero volto del governo Modi e del tessuto corrotto e anti-democratico sul quale poggia il suo consenso. La polizia è entrata in possesso di alcuni video della manifestazione pro-Guru tenutosi nell’ateneo della capitale, sui quali si basano le accuse agli studenti della JNU, trasmessi dall’emittente Zee News e ripresi da più parti. Nel video incriminato Kanhaiya Kumar sembra cantare “Pakistan zindabad” (viva il Pakistan) rivolgendosi a una folla di studenti. Qualche giorno fa, uno dei produttori dell’emittente al centro delle polemiche, si è però dimesso, confermando le voci che sostenevano che il video fosse stato manomesso.

Da altri filmati dell’evento, ampiamente condivisi in rete, emerge un quadro del tutto diverso. Il discorso tenuto dal leader del JNUSU durante l’evento, ha ben poco di anti-nazionale.

Kumar, a chiusura della manifestazione, ha detto di avere fede nella costituzione indiana e di non aver bisogno di un certificato di patriottismo dall’Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS), la frangia para-militare induista del BJP che ne costituisce la spina dorsale e la base ideologica. Kumar si è poi detto orgoglioso di essere uno studente della JNU, di favorire il dibattito sulla condizione di donne, musulmani, dalit e di tutte le minoranze del paese.

In un duro editoriale uscito giorni fa sul quotidiano Indian Express, Pratap Bhanu Mehta, presidente del Centre for Policy Research di Delhi, scrive che il BJP sta minacciando la democrazia, e questo è l’atto più anti-nazionale che ci sia. “Il governo non vuole solo schiacciare il dissenso”, continua Mehta, “ma vuole distruggere il pensiero, come i suoi ripetuti attacchi alle università dimostrano”. Il pensiero libero e critico che università come la JNU hanno sempre promosso e che ha contribuito a renderla una delle accademie più prestigiose del subcontinente.

E intanto lunedì scorso giornalisti, studenti e professori, radunati davanti alla corte di Patiala House per la prima udienza del processo a Kumar, sono stati attaccati da un gruppo di avvocati e sostenitori del BJP. Lo studente, anche lui malmenato sotto gli occhi polizia, senza che questa muovesse un dito, ha chiesto di essere rilasciato su cauzione perché non si sentiva al sicuro nel carcere di Tihar. Nuovi dettagli gettano ancora più ombre sulle autorità, complici della caccia alle streghe messa in atto dal BJP e dai suoi sostenitori: pare che il giovane studente di sinistra sia stato picchiato per ore mentre in custodia e costretto a cantare il mantra nazionalista dell’RSS.

Cordoni di polizia per contenere esponenti dell’estrema destra e una catena umana di professori si sono schierati la scorsa settimana nel campus della JNU a protezione degli studenti che per giorni hanno paralizzato l’ateneo manifestando contro il braccio duro del governo guidato da Narendra Modi, che con cadenza sempre più regolare ha fatto del nazionalismo di stampo induista la motivazione per giustificare una diffusa intolleranza verso il “diverso” e silenziare il dissenso, o tutto ciò che non si adegua ai dettami catechistici dell’RSS e dell’Hindutva (nazionalismo hindu), come scrive la storica Romila Thapar.

Gli altri cinque studenti della JNU accusati di sedizione, che erano spariti dalla JNU dopo l’arresto di Kumar facendo perdere le proprie tracce, hanno fatto rientro al campus universitario domenica sera, mentre la polizia era schierata fuori i cancelli, ma questa volta senza autorizzazione a entrare.

Su di loro in questi giorni è montata l’ira nazionalista dei sostenitori del BJP che, attraverso le emittenti a loro fedeli, hanno messo in moto la macchina mediatica tesa a diffamare i giovani studenti che hanno osato opporsi alla dottrina del governo, dipinti come sovversivi e anti-nazionali, e accusati di avere legami con il terrorismo di matrice Pakistana e kashmira.

Domenica sera Umar Khalid e Anirban Bhattacharya, due degli studenti al centro delle polemiche di questa settimana, ricercati dalle autorità e accusati di aver orchestrato gli eventi del 9 febbraio alla JNU, si sono accampati nei corridoi dell’università insieme agli altri studenti in protesta. Quella stessa sera Khalid ha tenuto un discorso in cui ha sostenuto di non supportare i terroristi e di non sentirsi neanche musulmano.

Insieme al compagno Anirban Bhattacharya, martedì sera si è consegnato alla polizia. E mentre montano le polemiche, in India e all’estero sul fascismo non più latente dell’attuale governo in carica, quella del BJP ha preso a tutti gli effetti i contorni di una crociata nazionalista contro il dissenso e i libero pensiero.