“Hanno pestato la coda alla jaracarà, invece che schiacciarle la testa”.
Questo il succo del messaggio consegnato alla stampa da un Lula da Silva appena uscito dal commissariato dell’aeroporto paulista di Congonhas, dove era stato portato contro la sua volontà dalla polizia per dichiarare nell’ambito della maxi inchiesta “Lavajato” (autolavaggio) sul giro di denaro tra l’impresa pubblica Petrobras e la politica. La jaracarà è il più pericoloso serpente velenoso del Sud del Brasile e c’è un solo modo di neutralizzarlo, schiacciare la sua testa appunto. Ignacio da Silva detto Lula è stato il simbolo più efficace dei cambiamenti avvenuti in Sudamerica alla fine della Guerra Fredda. L’operaio metalmeccanico che diventa presidente della grande potenza regionale era anche il dirigente politico dal profilo più popolare, per origine e per cultura. Molto più di Chavez e di Kirchner, anni prima rispetto ad altri due leader usciti dal popolo, Evo Morales e Pepe Mujica. Ma soprattutto Lula è stato il Presidente del boom del Brasile, diventato icona e simbolo di successo. Da un paio d’anni, il suo Brasile fiero e vincente, che aveva ottenuto in un sol colpo la Coppa del Mondo di calcio e le Olimpiadi, è praticamente scomparso. La cronaca ci racconta un Paese piegato su se stesso, in crisi economica e soprattutto in crisi morale e politica. Il Brasile di oggi sembra l’incubo di quello che si era finalmente svegliato, innescando un processo vertiginoso di crescita economica, di aumento del prestigio internazionale, di rimozione di antiche ingiustizie sociali.
Trenta milioni di persone, ed è un dato certificato, si sono emancipate dalla povertà durante il quasi decennio di Lula, periodo nel quale l’elettricità ha raggiunto le aree rurali, sono stati scoperti e sfruttati importantissimi giacimenti offshore di petrolio e la diplomazia brasiliana ha contribuito a fondare il gruppo dei Paesi BRIC. Tra il 2002 e il 2014 il salario minimo è aumentato del 77% e i brasiliani in condizione di povertà estrema sono scesi dal 9% della popolazione al 3%.
Questi traguardi sono stati raggiunti grazie a un ciclo favorevolissimo per le materie prime agricole e minerarie e alla capacità di diversificare le esportazioni verso est e verso il mondo arabo. Ma il Brasile “potenza”, che rivendicava un posto fisso nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU e impegnava i propri caschi blu in Africa e ad Haiti, aveva i piedi d’argilla. Malgrado il rumore mediatico, era rimasto un Paese dalle profonde disuguaglianze sociali, con una corruzione radicata nella classe politica e con una burocrazia asfissiante.
Se nel 2014 il rapporto di reddito tra l’1% della popolazione più ricco e il 10% più povero era di 14.500 reais contro 155, ci sarà un motivo.
A giudizio di molti, le differenze sociali in Brasile nascono dalla concentrazione della ricchezza in un sistema economico dominato da grandi e grandissimi gruppi economici. Concentrazione che riguarda anche la proprietà terriera, oggi dominata dai baroni della soia OGM. Sul piano fiscale, le rendite delle aziende non sono tassate, le tasse sulla successione e sul patrimonio sono ridicole, mentre quella sul reddito è poco progressiva. Il grosso delle entrate fiscali deriva infatti dall’IVA, pagata indistintamente da ricchi e poveri. L’aspetto lodevole delle politiche di Lula è stato il massiccio sostegno offerto al reddito dei ceti più bassi senza intaccare le concentrazioni della ricchezza, ma abbandonando i ceti medi. E proprio questi ultimi sono quelli che per primi hanno voltato le spalle al Partito dei Lavoratori.
Il Brasile che diventava potenza mondiale continuava ad avere servizi da terzo mondo in campo sanitario, scolastico o dei trasporti: contro questa situazione si sono ribellate le metropoli a più alto reddito. Ma sono stati altri due fattori a innescare la crisi complessiva del Paese: la crisi economica che ha rallentato la Cina, suo principale cliente, e il ritorno in primo piano della corruzione che coinvolge politici di governo e di opposizione con scandali sempre più clamorosi. Oltre al tradizionale fenomeno della compravendita dei voti (figlio di un sistema istituzionale nel quale il presidente non ha praticamente mai una maggioranza propria in Parlamento ma deve “costruirla”), è venuto alla luce il passaggio di fondi neri tra i gestori delle grandi aziende pubbliche, come il colosso Petrobras, e il sottobosco della politica di ogni colore. Un collegamento tra gestione della cosa pubblica e interessi privati non più digeribile da parte dei cittadini.
Questi sono i mali antichi di un Paese «benedetto da Dio per la sua natura», come recita una popolare canzone, ma che paga ancora un elevato prezzo alla storia coloniale, durante la quale si formarono i ceti sociali, la struttura della proprietà e i poteri che continuano a dettare legge in uno Stato ricchissimo eppure maledettamente pieno di poveri. E in questo contesto va letta la vicenda politica e umana di Lula. Dai sondaggi circolati pochi giorni fa, se si dovesse candidare alla successione di Dilma Rousseff, vincerebbe contro qualsiasi altro rivale.
Il Presidente più amato dei brasiliani oggi però sta vivendo giorni delicati per lui, per il suo mito e per il suo futuro. L’immagine del serpente velenoso al quale invece di schiacciare la testa hanno solo pestato la coda è significativa.
Sappiamo tutti che quando purtroppo capita, la cosa più probabile è che il serpente calpestato si rivolti di scatto mordendo la gamba dell’aggressore. Aldilà delle battute colorate, in Brasile è in atto una guerra tra poteri, ma il dato di fondo è vero: il sistema brasiliano è profondamente inquinato da connivenze illegali e la maggiore sconfitta del presidente-operaio è stata quella di non essere riuscito, o di non avere voluto, voltare pagina con le urgenti riforme di cui ha bisogno un paese eterno candidato a far parte del ristretto club delle potenze globali.