Ciad, tensioni in vista del voto

Un episodio di violenza accende la miccia del dissenso nel Paese chiave della politica francese per il Sahel

di Davide Maggiore e Valerio Colosio

Lei si chiama Zouhoura, ha 16 anni. Lui, Abachou, appena uno in più (altri dicono, uno in meno) e quando è morto stava manifestando perché a lei fosse resa giustizia. I loro due nomi, insieme, sono diventati le parole d’ordine di una protesta in qualche modo storica per il Ciad: la prima nata e diffusa attraverso la rete, come già era successo in Senegal nel 2012 e in Burkina Faso nel 2014. Un caso politico che rischia di imbarazzare anche l’eterno presidente Idriss Déby Itno, da 25 anni al potere e con l’aspirazione di succedere ancora una volta a sé stesso.

È l’8 febbraio quando Zouhoura, studentessa di liceo e figlia di un esponente dell’opposizione, viene rapita e probabilmente violentata da cinque suoi compagni di scuola, quattro figli di generali dell’esercito ed uno di un ministro. La sua colpa? Non salutare al loro passaggio. I cinque, poi, pubblicano online anche un video in cui si vede la ragazza nuda e in lacrime, ma non lo stupro: i ragazzi negano, quindi, che ci sia stata una violenza. Una denuncia non porta a nulla e una settimana dopo Mahamat Brahim Ali, il padre di Zouhoura, decide di rendere pubblica la storia sui social network. Nasce un hashtag, #justicepourzouhoura, e iniziano le manifestazioni. È in una delle prime, il 15 febbraio, che muore Abachou, colpito da un proiettile della polizia.

 

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Poco dopo, Déby interviene per la prima volta nella vicenda, attraverso Facebook: si dice “indignato come padre di famiglia”, per un’azione “ignobile e innominabile”. Promette giustizia, i cinque vengono arrestati. Ma da altre parti si denuncia che la ragazza avrebbe ricevuto pressioni proprio da membri della famiglia del presidente per chiedere la fine delle manifestazioni, mentre sull’emittente nazionale TeleTchad l’unico accenno alla vicenda è stata un’intervista ad uno degli accusati, che continuava a definirsi innocente.

Al di là sia dell’indignazione presidenziale espressa via internet, sia delle ricostruzioni di possibili manovre politiche, l’uomo più potente del Ciad ha certamente ragioni per essere preoccupato dalla vicenda di Zouhoura. Il profilo degli accusati rende questo caso diverso dai molti altri che – come ha denunciato proprio il padre della studentessa – avvengono in silenzio nel paese e le manifestazioni non si sono fermate; si sono allargate, anzi, dalla capitale N’Djamena (dove l’adesione alla journée ville morte – una sorta di sciopero generale – del 24 febbraio è stata buona) ad altre località.

Una protesta a Faya Largeau, nel nord del paese, è stata violentemente repressa dalla polizia, con massicci arresti tra gli studenti e vittime e dal 15 febbraio continuano le dimostrazioni o i tentativi di organizzarne in quasi tutti i capoluoghi del paese. A tentare di coordinare le contestazioni è anche Trop c’est trop, un collettivo di realtà che già in passato avevano contestato Déby. Quanto basta per aggiungere tensione in vista del 10 aprile, quando è in programma il primo turno delle elezioni presidenziali: Déby, che nel 2005 ha fatto modificare la costituzione per potersi ripresentare, cerca di ottenere il sesto mandato consecutivo. “Non posso abbandonare il paese nel caos” è stata la sua motivazione al momento di annunciare l’ennesima ricandidatura. Un’allusione al fatto che, da mesi, il paese è diventato obiettivo delle azioni della setta nigeriana Boko Haram, sia nell’area di confine del lago Ciad, sia nella stessa capitale N’Djamena. Qui tre attentati in meno di due mesi (15 e 29 giugno, 11 luglio) hanno provocato in tutto 60 vittime.

Gli attacchi diretti dei fondamentalisti sul territorio ciadiano sono anche la conseguenza della decisione del governo di prendere parte alle due più importanti missioni militari internazionali nell’area. Quella francese cominciata con la missione Serval in Mali e proseguita con l’operazione antiterrorismo Barkhane in tutto il Sahel, ma soprattutto la prevista forza multinazionale africana che dovrebbe combattere appunto Boko Haram, già affrontato dalle truppe ciadiane nell’Estremo nord del Camerun. Paradossalmente, però, proprio il Ciad era stato indicato in passato come una via di passaggio di miliziani e armi destinate ai jihadisti della Nigeria, tanto da far diffondere nel Paese voci per cui tra gli estremisti e il governo ci sarebbe stato un tacito accordo: occhi chiusi sui traffici, in cambio della pace.

 

The rotating chairman of the African Union (AU), Chadian President Idriss Deby Itno attends a press conference at the AU Headquarters in Addis Ababa, capital of Ethiopia, on Jan. 31, 2016. The 26th ordinary session of the AU heads of states and governments closed on Sunday at the AU Headquarters in Addis Ababa. (Xinhua/Pan Siwei) /CHINENOUVELLE_3101.ETH.004/Credit:CHINE NOUVELLE/SIPA/1602011927

Il sostegno alla guerra al terrore euro-africana ha accresciuto il ruolo di Déby, sia da un punto di vista formale (con l’elezione alla presidenza a rotazione dell’Unione africana per il 2016) sia informale. Dopo la morte di Gheddafi e la fuga del presidente del Burkina Faso Blaise Compaoré, è infatti N’Djamena il perno della politica regionale e il riferimento principale della Francia nella regione. Ma le cose stanno diversamente sul piano interno: per quanto riguarda il Mali, molti ciadiani sentono di essere stati usati come “carne da cannone” dai francesi, che hanno lasciato agli alleati africani le missioni più pericolose nelle zone desertiche. Nel paese, si sente parlare spesso di possibili ammutinamenti e tensioni in seno all’esercito. E anche se pochi casi di questo tipo sono stati effettivamente documentati, c’è stato un intenso turnover tra i vertici militari e statali, tutti controllati dagli Zaghawa – etnia del presidente – e, in alcuni casi da parenti stretti del capo dello stato: il figlio Mahamat, ad esempio, è stato nominato vicecomandante proprio della missione in territorio maliano.

È anche contro questo sistema che si rivolgono le manifestazioni nate dopo la violenza contro Zouhoura e la morte di Abachou: le richieste di mettere “fine all’impunità per i potenti” e del ritiro della candidatura di Déby si sono rapidamente affiancate a quelle di giustizia per i due giovani. Ma il presidente, in un rimpasto di governo avvenuto pochi giorni dopo l’inizio delle manifestazioni, ha confermato al loro posto i ministri i cui figli erano stati coinvolti nell’affaire. Come nella lotta contro Boko Haram, il capo dello stato ha dunque deciso di farsi forte ignorando un’evidente debolezza. Ma la piazza rumoreggia ancora e il 10 aprile si avvicina.