di Valeria Nicoletti
Brancaccio è un pugno nello stomaco a fumetti. Una storia che nasce dall’urgenza del dire, del raccontare, perché la mafia uccide, “soprattutto quando si fa finta che non ci sia”.
Dal rifiuto di stare a guardare in silenzio. In poco meno di cento pagine, un intreccio di bianchi e neri racconta una storia di ordinario squallore nel dodicesimo quartiere di Palermo, zona industriale, dove il paesaggio urbano è fatto di lamiera d’acciaio, delle saracinesche dei depositi di stoccaggio degli autobus, dei magazzini per lo smaltimento dei rifiuti. Ai limiti del quartiere, una ferrovia.
Di Gregorio e Stassi, entrambi palermitani,
mettono in scena la propria città.
In pochi tratti, rivelano tutto lo squallido degrado imposto al quartiere dove operava Padre Puglisi, che tentò con tenacia di portare via i ragazzini dalla strada e venne assassinato nel settembre del 1993: l’acqua corrente che manca, i ragazzini che rubano le vespe per strada in cambio di pochi spiccioli, la battaglia contro i mulini a vento dei doposcuola e dei lavoratori sociali, le lotte dei cani, gli ospedali presi in ostaggio dalla mafia dei camici bianchi, i santini elettorali passati sottobanco, la statua della Madonnuzza, come ultimo appiglio.
La grande storia si fa da parte e lascia parlare la cronaca di ogni giorno, lo scontro quotidiano di un quartiere imbevuto di microcriminalità, di miseria, di omertà, di un’etichetta fatta d’onore e favori dovuti imposta sin dalla nascita, di un rito “di piccoli soprusi e impercettibili genuflessioni”, di una condizione di vittima che a volte sembra quasi essere scontata.
I grandi avvenimenti, le stragi, la morte di Padre Puglisi, restano sullo sfondo.In primo piano, c’è la vita di Nino, Pietro e Angelina, la famiglia di un venditore di panelle, intrappolata nelle maglie di Cosa Nostra.
Succede a Brancaccio, ma potrebbe verificarsi ovunque: la raccomandazione per un posto al comune, la telefonata al parente ammanicato di turno per una visita in ospedale, scene da un’Italia che, purtroppo, esiste ancora.
“Di fronte a Cosa Nostra e alla sua cultura, alle sue sopraffazioni, non bisogna mai abbassare la guardia”, ripete Rita Borsellino nella prefazione.
Agire, raccontare, parlare, per Brancaccio, ma soprattutto oltre Brancaccio. Perché la mafia è viva, in salute, soprattutto quando non fa rumore, quando non si fa sentire e opera in silenzio. E “se si rinuncia a comunicare, a mostrare l’alternativa al sistema criminale, si rinuncia al cambiamento”.
Brancaccio resta lì, sullo sfondo, dietro i panni stesi ad asciugare, divisa tra l’eterno rispetto ai padrini e la voglia di cambiamento, sempre più pressante, come dimostrano le ultime iniziative dei ragazzi di Libera, l’eredità etica di Padre Puglisi e i ragazzi che gestiscono l’associazione omonima, nonché la campagna di Addio Pizzo. Come Nino, Brancaccio aspetta un ultimo treno, forse per dimenticarsi di sé e non tornare più, forse un giorno per riprendersi in mano la città.