Una narrazione collettiva, la città di tutti e di nessuno
di Giovanni Ferrò
Gerusalemme è femmina, una città altezzosa e desiderata, dietro a cui popoli e religioni sbavano da due millenni. Te ne accorgi subito, ancor prima di arrivarci, specie se viaggi sulla strada che da Qumran e Gerico sale alla Città santa. Sì, perché a Yerushalaim, sin dai tempi biblici, non ci si “va”. Si “sale”. Anche a te, allora, tocca la stessa sorte, inscatolato nella piccola utilitaria con il cambio automatico che arranca su per i tornanti del deserto di Giuda. E lei fa la preziosa, si fa sospirare nascondendosi alla vista, ti fa sudare per il caldo assassino. Infine, quando inizi a intuirne il disegno laggiù in fondo, ti fa fare anticamera a uno dei tanti check-point, dove ragazzotti scorbutici in divisa ti guardano storto e, dopo un rapido controllo documenti, ti fanno passare senza troppo discutere giusto perché la tua targa è israeliana e la macchina è di un rent-a-car di Tel Aviv.
Come ogni nobildonna che si rispetti, Gerusalemme se la tira.
E sarà un caso – ma forse no – che la riconsegna dell’auto sia al famoso Hotel King David, appena fuori dalla Città vecchia. Un po’ Betsabea, un po’ regina di Saba, Gerusalemme ti abbaglia con il riflesso del sole sulle sue bianche mura e ti inebria con gli aromi giulebbosi dei suoi giardini. Su Giaffa Street si mostra un po’ zoccola, pronta a blandire ogni passante, a cominciare dal turista sprovveduto. Ma subito cambia d’abito e torna scostante, fredda, inafferrabile. Ti illude quando un ebreo chabad, grondante sudore in un abito di lana nero, si stacca dal suo gruppetto e ti si avvicina con un sorriso. Pensi a un’inaspettata voglia di fare conoscenza tra persone di mondi lontani e ricambi l’esposizione della chiostra di denti. Invece Gerusalemme ti pianta subito in asso quando l’ultraortodosso – una volta saputo che non sei ebreo – ti dice solo un «have a nice day», ti volta le spalle e se ne va. Sei un goy, quindi la moral suasion dell’ebreo in nero per adempiere la mitzvah (precetto) di indossare i tefillin (filatteri) per la preghiera non è rivolta a te, tu sei fuori dal recinto del «popolo santo».
Al-Quds è una trasformista. In certi quartieri è mediorientale-chic, avvolgente e alternativa. In altri, invece, è rozza e puzzolente, maleducata e intollerante. Ha mille volti: caciarone e folkloristico al mercato di Mahanè Yehuda, silenzioso e commovente sulla stradina che dal Monte degli Ulivi scende alla chiesa del Getsemani costeggiando il cimitero ebraico. Nei vicoli della Città vecchia indossa i panni di una popolana simpatica e sboccata, calorosa ma – a tratti – volgare. Sembra una mignotta di strada, con tanti protettori a contendersela per poterla sfoggiare come la perla più preziosa della scuderia.
Giri un angolo, sbuchi in faccia al Santo Sepolcro, ed ecco che all’improvviso è tutta cristiana. Ma anche nel tempio più conteso dell’Ecumene, Gerusalemme odora di prostituzione: fino a una certa ora è mia e la gestisco – prego e celebro – a modo mio; oltre lo scoccare del minuto successivo, diventa tua, fanne pure ciò che vuoi.
Al Santo Sepolcro ogni metro quadrato è un confine: qui è cattolica, lì greco-ortodossa, in fondo a destra è siriaca, sul tetto è copta etiope. Sulla Pietra dell’unzione si lascia toccare da tutti, pellegrini e curiosi che la deflorano versandovi olio che poi asciugano forsennati con fazzoletti di stoffa o, addirittura, con i kleenex: come se il masso fosse davvero quello su cui fu adagiato il corpo di Cristo morto, e come se replicare il gesto dell’unzione potesse far acquistare al liquido oleoso chissà quale potere taumaturgico.
Giri l’angolo successivo e, da femmina sguaiata, Gerusalemme torna algida e intoccabile: davanti al Muro occidentale devi camminare in punta di piedi per non irritarla. Gli sguardi severi e rapiti dalla preghiera degli uomini avvolti nel tallit ti dicono che lei, Yerushalaim, può diventare isterica così, di punto in bianco, per un nonnulla. Sulla Spianata delle Moschee ti muovi addirittura guardingo, sai mai che ti capiti di restare preso in mezzo in uno dei tanti scontri tra palestinesi esasperati e poliziotti israeliani ossessivi.
È una femmina radiattiva: così vicina al Santo dei santi da far ammalare gli uomini che le si avvicinano troppo. Prostituta sacra d’alto bordo, ti fa pagare caro un breve lampo di appagamento spirituale e poi ti lascia lì, triste e svuotato. Sempre più pazzo di lei.
D’altronde, come faceva notare il poeta comunista israeliano Alexander Penn, kadosh (santo) e kedeshah (prostituta) sono termini con la stessa radice.
Vestale di molti altari, Gerusalemme fa mostra di voler consolare, almeno per un istante, il tuo desiderio del grande amore perduto, la ricerca inesausta del tuo personalissimo Graal, la tua nostalgia di un «Totalmente Altro» mai veramente conosciuto. Ma in realtà baratta soltanto le tue proiezioni più intime con qualche idolo di pietra abbacinante. Gerusalemme, puttana degli Dei.
L’immagine di Gerusalemme in apertura è una foto di David Poe tratta da Flickr in CC