tante voci, molti linguaggi, un’unica città
Di Maria Elena Delia
La prima volta ho conosciuto Gerusalemme negli occhi di chi l’aveva vissuta, amata e sofferta, molto tempo prima di quando, un giorno, l’avrei fatto io. Non erano gli occhi dei turisti che arrivano a Gerusalemme senza sapere nulla di lei, solo per poter mettere un’altra crocetta sul registro contabile dei viaggi da esibire agli amici come una medaglia o poter raccontare all’aperitivo del venerdì quanta incredibile spiritualità si respiri per quelle strade insieme al profumo della storia e dello zaatar.
E non erano le parole di chi a Gerusalemme arriva in pellegrinaggio, spinto dalla misteriosa potenza di quella capacità di avere fede nell’indimostrabile, che io non conoscerò mai e che porta ogni giorno migliaia di esseri umani a calpestare quella terra stanca morta, nella speranza di trovare un canale privilegiato che porti dritto alla salvezza eterna, paradossalmente proprio dove giustizia e pace non sono più di casa da tempo immemorabile.
La prima volta che la incontrai fu, invece, attraverso le parole e gli occhi, umidi di rabbia e di impotenza, di chi a Gerusalemme era arrivato per capire, testimoniare e agire.
Quei primi viaggi raccontati, però, non avevano il profumo degli ulivi, né la luce dell’alba sulla spianata delle moschee a lasciare senza fiato. Avevano invece il suono delle voci dei palestinesi che a Gerusalemme, come ovunque in Palestina, vivono quotidianamente l’insulto alle loro radici e l’espropriazione della loro identità. Quei primi viaggi si chiamavano Maali, Mohammed, Fathi, Ghassan, Samira e ricordo come se fosse stato solo ieri quanto dentro di me crescesse l’indignazione a ogni parola e a ogni parola crescesse il bisogno di partire.
Immaginavo famiglie intere trascinate fuori a forza dalle abitazioni che erano state il loro rifugio per generazioni, immaginavo una città infestata da soldati israeliani armati a controllare ogni passo, immaginavo un muro enorme a separare famiglie distanti solo pochi chilometri nel nostro sistema metrico, ma lontane anni luce grazie alla violenza dell’occupazione israeliana. Immaginavo la Palestina e la immaginavo bene.
La seconda volta ho incontrato Gerusalemme nel cuore della notte. Ero atterrata a Tel Aviv, era la prima volta che arrivavo al Ben Gurion e sarebbe stata anche l’unica nella mia vita (sarei invece ripartita a forza da quello stesso aeroporto in futuro, ma ancora non lo potevo sapere). Era molto tardi e sullo sherut (taxi collettivo) che doveva portarmi a Gerusalemme mi ero addormentata. Aprivo gli occhi di tanto in tanto, a un sobbalzo o nel sentire le voci dei miei compagni di viaggio farsi un po’ più rumorose, ma subito dopo li richiudevo sfinita.
E ricordo ancora l’emozione che provai quando in lontananza la vidi, illuminata nella notte pesta, vecchia come il mondo, bella come la vita. Piansi, di nascosto, un po’ vergognandomene. Perché Gerusalemme, per quanto preparati e cinici si possa essere, per quanto si conosca la sua storia e il suo dolore, o forse proprio per questo, non è e non sarà mai un posto come un altro.
Era imponente, quasi irreale e non so dire quanto la mia commozione fosse condizionata da tutto quel che sapevo o quanto fosse puramente istintiva, ma so che di tanto mondo che ho avuto il privilegio di conoscere, mai nessun luogo mi è entrato sotto pelle come lei.
L’albergo che mi ospitava era noto per essere uno degli alberghi “resistenti” di Gerusalemme Est. Gestito dalla stessa famiglia da decenni, era sulla lista nera israeliana degli edifici da “ripulire” per poterne poi usufruire a proprio piacimento. Ma i palestinesi non si piegano facilmente e questi straordinari locandieri continuavano a mantenere il controllo di quanto gli apparteneva anche grazie a chi riempiva le loro stanze 365 giorni all’anno.
Ricordo le testimonianze che i viaggiatori come me avevano lasciato sui vecchi muri di quelle stanze, ricordo di aver pensato che tanta solidarietà fosse commovente, ma purtroppo insufficiente. I giorni successivi furono pieni di impegni e non avevo letteralmente il tempo di muovermi per Gerusalemme. Dovevo incontrare delle persone al campo profughi di Betlemme, poi a Balata.
Ero una messaggera per conto di qualcuno a me molto caro che, finito sulla black list israeliana e non potendo quindi raggiungere quei luoghi e quelle persone, aveva chiesto a me di farlo. Passavo molto tempo nei campi e la sera rientravo sfinita. Ma con l’oscurità Gerusalemme si risvegliava a mostrarsi per quel che era. Le orde di turisti e pellegrini che purtroppo la invadono quotidianamente scomparivano e le sue strade sfinite da troppi passi ricominciavano a respirare. E’ di notte che ho conosciuto Gerusalemme la seconda volta ed è di notte che l’ho imparata, respirata, intuita.
Avevo sorriso sarcasticamente ogni volta che qualcuno mi aveva raccontato che per quelle strade si sente tutto l’odore della Storia, ma muovendomi come in trance da un quartiere all’altro, da una porta all’altra, senza nemmeno fare caso a dove stessi andando, era esattamente quello l’odore che sentivo. Sentivo tutti i pianti urlati dei venuti al mondo tra quelle pietre nei secoli dei secoli, l’odore del sangue versato in nome di comode fantasie, sentivo i gemiti di tutti gli amanti che si erano fusi in amplessi liberatori, sentivo la paura, la ferocia, la fede, la gioia e la vita in tutte le sue infinite sfaccettature.
Poi la esplorai alla luce del giorno e conobbi Babele. Una Babele sotto scacco, in cui il contrasto tra la vita dei turisti e dei pellegrini e quella dei palestinesi sotto occupazione, vessati, umiliati, colpiti quotidianamente da soprusi e ingiustizie, mi appariva pornografico, disturbante e inaccettabile.
Esattamente come la prima volta che l’avevo conosciuta, in quei viaggi raccontati. Non posso negare che la moltitudine di lingue, religioni e nazionalità che mi circondava in una apparente folle armonia, fosse affascinante. Non posso negare che ritrovare a portata di qualche passo la Spianata delle Moschee, il Muro del Pianto e il Santo Sepolcro non fosse in sé fortemente simbolico e denso di significati, che non è neppure necessario spiegare.
Né che non sia stato arricchente scambiare tempo e pensieri con un vecchio fotografo armeno, con i tassisti che mi portavano dove dovevo arrivare usando scorciatoie che potessero evitare i check point o con i ragazzi che cucinavano il pane caldo lungo la via Crucis e te lo servivano con olio e zaatar, facendoti capire cosa sia davvero il paradiso. Solo per citarne alcuni, perché ricordo ogni singola parola scambiata e ogni singola pietra di Gerusalemme, ma ancora di più ricordo quella rabbia di fronte a un contrasto tanto iniquo.
E poi ho incontrato Gerusalemme in ogni angolo di Palestina in cui sono stata, in ogni pietra calpestata in quella terra , in ogni sorriso incrollabile, in tutte le lacrime versate, in ogni ferito, in ogni morto, in ogni battaglia persa, ma combattuta fino alla fine, in ogni palestinese a cui ho avuto il privilegio di stringere la mano e da cui ho potuto sempre imparare coraggio e resistenza.
La mia Gerusalemme sono gli occhi fieri di chi ancora resiste e quelli chiusi di chi per Gerusalemme ha dato tutto.