di Gabriele Battaglia, da Pechino, tratto da ChinaFiles
Che la Cina sia ancora a metà del guado e che abbia qualche difficoltà ad «attraversare il fiume toccando le pietre», lo dimostra il fatto che le riforme, le leggi, le norme che condizionano la vita quotidiana dei cittadini, molto spesso colpiscono i cittadini stessi invece di favorirli. La regola crea il disservizio.
L’ultima novità riguarda le bici elettriche, cioè quel mezzo così silenzioso e così ecologico che è sul serio un’eccellenza cinese e una speranza di sostenibilità nelle metropoli tentacolari.
Ebbene, l’ufficio di Pubblica Sicurezza di Pechino ha bandito da oggi, 11 aprile, biciclette e motorini elettrici da dieci vie centrali e a grande scorrimento (qui, in dettaglio). Venti RMB di multa ai trasgressori. Per chi è pratico di Pechino, è di fatto la chiusura di tutta la direttrice est-ovest che passa sotto la città proibita, fino almeno al terzo anello: la via della Lunga Pace, piazza Tian’anmen e altre arterie famose, dove potranno sfrecciare solo le automobili. Immaginate l’Area C di Milano al contrario: «Mi spiace, entro la cerchia dei Navigli circolano solo le Audi nere dai vetri oscurati e il Porsche Cayenne».
È proprio nella sfida darwiniana tra due e quattro ruote che va spiegata la decisione delle autorità locali. Si è stabilito che le bici e i motorini elettrici «disturbano» le auto e che, nelle loro anarchiche traiettorie, sono responsabili della maggior parte degli incidenti stradali.
Secondo l’ufficio del traffico della Sicurezza pechinese, i diandong erlunche (letteralmente «veicoli a due ruote a trazione elettrica») sono stati coinvolti in oltre 31mila incidenti nel corso del 2015, che hanno provocato 113 morti e oltre 21mila feriti. Si tratta del 36,7 per cento di tutti gli incidenti stradali avvenuti a Pechino durante lo scorso anno.
Si biasimano in particolar modo i veicoli che superano la velocità consentita di 20 km/h e la massima capacità di carico di 40 kg, dicendo che sfrecciano troppo velocemente sulle piste ciclabili (di cui, va detto, Pechino è dotata in maniera incommensurabilmente maggiore rispetto alle nostre «vivibili» città italiane).
In realtà, sulle strade cinesi vige la legge del più forte. A non rispettare il rosso o ad andare in contromano non sono sole le bici elettriche, bensì anche quelle a pedali, i carretti e i sanlunche, cioè i veicoli a tre ruote. È la loro strategia di sopravvivenza su strade sempre più trafficate, dove le auto non sono solo indice di sviluppo e benessere, ma anche di protervia. Giusto per fare un esempio, la regola stradale made in Usa secondo cui anche se c’è rosso un veicolo può girare a destra a patto che nessuno stia arrivando, qui è interpretata senza la clausola finale: «C’è rosso, ma io ho l’auto e devo girare a destra, mi butto in mezzo all’incrocio e chi se ne frega di te, ciclista, ciclista elettrico, pedone, etc». Adesso, a Tian’anmen e dintorni, per questi tipi qui si stenderanno i tappeti rossi.
È una scelta, quella di limitare il mezzo ecologico, che appare in controtendenza rispetto a tutto ciò che sta avvenendo in quel mondo «sviluppato» di cui la Cina si propone di diventare parte integrante. Ma non si tratta tanto di imitare i Paesi cosiddetti «evoluti», dato che non siamo stati immuni pure noi dalla motorizzazione selvaggia e poi la Cina ha tutti i diritti di seguire proprie linee di sviluppo senza scimmiottare gli altri. Il problema, qui, è che la Cina il problema dell’inquinamento e delle megalopoli intasate ce l’ha – e bello pesante – in casa sua. Perché quindi dare questo segnale così controproducente?
La scelta della Pubblica Sicurezza pechinese non è un caso isolato: prima che nella capitale, la scelta di limitare la circolazione delle bici elettriche era già stata presa a Shenzhen, Guangzhou e altre città. È un trend nazionale.
Le biciclette elettriche sono l’evoluzione delle due ruote a trazione umana per cui la Cina e i cinesi erano famosi. Oggi sono il mezzo preferito dei migranti rurali giunti in città e, più in generale, della gente rimasta indietro sulla scala dell’arricchimento.
La scelta delle autorità di Pechino è quindi una scelta di classe. Privilegia i privilegiati e, soprattutto, asseconda la corsa all’accaparramento di quel binomio casa-macchina che accomuna tutto il paludoso ceto medio globale. Indica la strada verso il futuro: zhongguo meng, sogno cinese.
È inoltre del tutto coerente con il progetto di espellere i migranti rurali dalle città maggiori, per ricollocarli nelle periferie delle stesse o nelle città di seconda-terza fascia. Del resto, la segmentazione delle città e l’espulsione degli indesiderati non è roba solo cinese. Vogliamo parlare della rimozione delle panchine dalle nostre piazze o dalla loro ergonomica volutamente scomoda affinché i barboni non ci possano dormire sopra? In Cina, questo nuovo progetto si chiama «urbanizzazione incentrata sull’uomo». Come nelle grandi opere idrauliche per deviare il corso dei fiumi, l’Imperatore cerca da sempre di incanalare pure i flussi umani.
Infine ci sono Tian’anmen e dintorni da rendere sempre più «salotto» della Cina. Un salotto transennato, perimetrato, sorvegliato, incanalato. Invivibile. La piazza più famosa del mondo di fatto nacque già così dopo il 1949: non luogo d’incontro e di dibattito tra genti – come la nostra Agorà – ma grande palcoscenico di celebrazione del potere. Disgraziatamente, la storia procede spesso per eterogenesi dei fini e dal funerale di Zhou Enlai nel 1976, all’attentato terroristico dell’ottobre 2013, passando per il movimento del 1989, la grande piazza è diventata spesso il magnete che attira le manifestazioni di contro-potere, spontanee, organizzate o disperate che siano.
Oggi no, Tian’anmen è saldamente sotto controllo. Che le biciclette elettriche lascino il posto al Suv.