di Giovanni Borrello
Le ville di Punta San Martino guardano sempre al mare: l’enclave chic figlia di progettisti di grido e archistar fa oggi come allora da confine tra i Comuni di Cogoleto ed Arenzano. Campi sportivi, passeggiate, percorsi attrezzati, giardini rigogliosi: un’oasi di pace a cui si accede solo col pass dopo aver superato il checkpoint con la sbarra. Il fiore all’occhiello delle seconde case e dell’abitare di qualità. La vista che si gode da lassù è impagabile: nelle giornate terse la vista sul golfo ligure spazia fino alla Toscana. Poco distante, sulle rive del torrente Lerrone, in territorio di Cogoleto, sta per essere definitivamente demolita la tristemente nota Stoppani, la fabbrica che negli anni Ottanta fu al centro di uno dei più famosi casi di inquinamento italiani. I suoi fanghi pregni di cromo esavalente sono finiti per anni in mare. Lo stesso mare che è uno dei motivi principali di attrattiva per il territorio: perché di estate la popolazione delle due cittadine rivierasche aumenta, ben pasciuta da milanesi e torinesi. “Si ricorda della Haven?” Qualcuno sogghigna: “È passato molto tempo”. “Poteva andare peggio”. Sul molo d’attracco sotto il promontorio rimane una targa in memoria di quei giorni tragici.
PETROLIO
Le giornate si facevano sempre più lunghe e la primavera sbocciava su tutta la Penisola quando il 10 aprile a largo di Livorno il traghetto Moby Prince si scontrò con la petroliera Agip Abruzzo che subito prese fuoco uccidendo i 140 passeggeri del ferry boat. Molti ancora oggi parlano di complotto internazionale: il luogo dell’incidente infatti si trova non molto distante dalla grande base strategica USA di Camp Darby – a mezza via tra Livorno e La Spezia, il più grande deposito logistico del Mediterraneo (10.000 ettari e 1.400 uomini impiegati). Tutto il nord del Mediterraneo comunque era assediato da basi militari o da impianti di telecomunicazioni militari. Si ricordano a questo proposito la base di San Bartolomeo della Spezia per le ricerche per la guerra sottomarina e la base di radiotrasmissioni di Calice Ligure (SV). E questa porzione di mare era molto trafficata da navi americane in fase di smobilitazione in seguito alla fine dalla Guerra del Golfo. Quasi negli stessi momenti al porto di Genova un’altra petroliera prese fuoco…
IL MARE IN FIAMME
Giovedì 11 aprile, alle 12,10, un boato squarciò l’aria a sei miglia dalla costa di Arenzano. Dalla Haven si levò una densa colonna di fumo, cento metri di coperta di prua saltarono in aria e ricaddero in mare (attualmente si trovano a 94 metri di profondità.). La nave, in pochi minuti, venne completamente avvolta dalle fiamme e i trentacinque membri dell’equipaggio tentarono di salvarsi gettandosi in mare. Vi riuscirono in trenta, soccorsi dalle motovedette partite da Genova e Savona e scortate dagli elicotteri che volavano a bassa quota alla ricerca dei restanti naufraghi dispersi. Due cadaveri già galleggiavano nell’acqua che man mano si macchiava di nero greggio intanto che i feriti erano riportati a riva e trasportati agli ospedali di Sestri, Voltri, Sampierdarena e ovviamente al San Martino.
Cinque morti fu il bilancio definitivo di quel dramma.
Racconta la regista teatrale Daniela Balestra: “Stavo tornando con una mia collega in macchina da Milano, quando allo svincolo di Voltri lei mi dice ‘Toh, c’è il mare in fiamme!’ Io ero concentrata sulla strada, per cui non potevo vedere la rada e pensai così che fosse tanto stanca da dare i numeri. E invece quando guardo anch’io mi accorgo che effettivamente c’era una nave che bruciava tonnellate di carburante. Io allora abitavo a Savona e da casa mia si vedeva benissimo la nuvola nera verso Genova.” La signora Balestra ha diretto per anni il laboratorio teatrale di un istituto scolastico savonese, portando il suo “teatro bianco” in giro per l’Italia e vincendo concorsi. La vicenda della Haven la colpì molto, al punto da inserire diversi spunti sulla vicenda in alcuni copioni: “Ci recammo a Celle. Mi ricordo che lungo la spiaggia c’erano lunghe cortine di bidoni già colmi o ancora da riempire. Poi arrivavano dei camion che li portavano via per non so dove… sinceramente ho sempre avuto paura di saperlo”. “Sono uscita sul terrazzo e ho visto tutto quel fumo nero, pensavo ad un vulcano” racconta invece l’anziana Maria Pia R., affezionata villeggiante di Arenzano. “Ho visto che era tutto buio, ha fatto una fiammata, uno scoppio che non ti dico e poi è andata giù. Io sono arrivata qui la sera della domenica, ma inizialmente non mi sono accorta di nulla”.
Non ci volle molto perché ci si rendesse conto che ci si trovava di fronte ad un gravissimo disastro ambientale, anche se stando alle testimonianze dei tecnici si credeva che forse si sarebbe evitata la catastrofe totale se il petrolio fosse bruciato in grande quantità.
Era pronto un piano di evacuazione di massa della popolazione qualora fosse cambiato il vento. Ma ciò non avvenne. I cittadini di Arenzano sono ancora convinti che sia stato grazie anche alla protezione divina: il Bambin Gesù di Praga, venerato nel santuario in cima alla città, aveva nuovamente salvato i suoi devoti concittadini come nella seconda guerra mondiale. E infatti, entrando nella sala dei souvenir del Santuario, si può ancora oggi ammirare una statua del Gesù incrostata di corallo, ostriche e catrame che venne posta sul relitto.
IL DANNO
Nel giro di poche ore la società Castalda, convenzionata con il Ministero della Marina Mercantile per fronteggiare le situazioni di rischio ecologico, intervenne con quasi un chilometro e mezzo di “panne” (speciali barriere gonfiabili che affondano sott’acqua oltre un metro e che avrebbero così dovuto circoscrivere la macchia inquinante) impiegate come vera e propria diga di sbarramento per evitare che la costa rimanesse invischiata in quella melma. Altri quindici chilometri almeno sarebbero ancora giunti nei giorni seguenti, su ordine del commissario nominato per risolvere il drammatico problema della mucillagine, dall’inquinatissimo Mar Adriatico. Se la nave fosse esplosa al porto di Multedo mentre si trovava alla fonda sul punto Mike, davanti al porto petroli, sarebbe stato un disastro non solo ambientale ancor più grande, ma certamente umano: per i vicini quartieri si sarebbero certo contati a decine i morti. In pochi minuti presso il Capo di Arenzano si concentrò una piccola flotta di imbarcazioni della Capitaneria, dei Vigili del fuoco, dei Carabinieri, della Polizia, della Guardia di Finanza, nonché rimorchiatori e piloti.
Ma era già troppo tardi: la nave e il suo carico erano un rogo in mezzo al mare che, a intermittenza, esplodeva in numerose deflagrazioni.
Una prima idea di quello che era successo la si ebbe nel tardo pomeriggio: William Gorge, uno dei superstiti ospitato in una struttura ospedaliera, raccontò al magistrato responsabile delle indagini preliminari che alle 12:00 stavano pompando il greggio da due taniche di prua verso una al centro della nave, quando improvvisamente si verificò un’esplosione a causa della rottura di una delle pompe usate per aspirare petrolio.
Quando fece buio, la Haven era già da ore che non si vedeva più, completamente scomparsa alla vista, avvolta com’era in una nube di fumo che ricordava moltissimo il fungo di Hiroshima e che oscurava il sole. Otto rimorchiatori le si erano disposti attorno bombardandola con getti di solvente. Contemporaneamente quattro o cinque elicotteri sorvolarono a bassa quota incessantemente un raggio di mare di qualche centinaio di metri. Ciò che preoccupò ancor di più era il fatto che si stesse spostando, trasportata dalle correnti, verso ovest: verso il savonese.
LA LIGURIA COME L’ALASKA?
Nel marzo del 1989 nel Golfo dell’Alaska, presso la Baia di Prince William, la petroliera Exxon Valdez riversò circa 30.000 tonnellate di greggio in mare, causando la morte di almeno 25.000 uccelli, oltre 3.000 foche e lontre e ben 22 balene. Sarebbe potuto accadere altrettanto in Liguria, nella più popolosa Europa? Mercoledì 17 aprile si alzò un forte vento di scirocco che spinse il petrolio galleggiante verso le spiagge del Ponente. Nel giro di poche ore, la mareggiata travolse le panne arancioni messe a protezione della costa. Così in più punti il greggio invase il litorale, trascinando con sé i serpentoni incatramati che dovevano contenerla: le spiagge di Arenzano e Cogoleto furono invase, così come altre prestigiose località della Liguria di Ponente.
I soldati in mimetica, notte e giorno, cercarono in ogni modo di spalare via più pece possibile dalle battigie, ma il velo iridescente degli idrocarburi si stava ormai spostando irreversibilmente verso lo skyline dei lidi di Albenga e Alassio, là dove si erge la famosa Isola Gallinara, fino a raggiungere Sanremo e varcare i confini nazionali per contaminare Montecarlo e la Costa Azzurra.
L’isola Gallinara: dieci ettari appena di macchia mediterranea della Liguria di inizio secolo rimasti miracolosamente intatti, un avamposto secolare scampato alla bolgia edilizia che a pochi chilometri, più a riva, ingombrava di palazzine e sopraelevate tutto quello che umanamente si poteva occupare, tra un villino tardo ottocentesco e un’antica chiesa medievale che proprio non si poteva abbattere per fare un comodo parcheggio. Un custode, l’anziano ma arzillo signor Giuseppe che i proprietari incaricarono di curare quel gioiello del Mediterraneo, rilasciava strazianti interviste a giornalisti di mezzo mondo: “Se arriva l’onda nera, per la Gallinara è la fine, rimarrà imbrattata per anni. Centinaia di gabbiani reali e cormorani abbandoneranno i loro nidi”.
Il WWF mise in piedi una task force incredibile – convocò pure un’équipe veterinaria proveniente dalla riserva milanese di Vanzago – ma alla fine, a parte i soliti animaletti incatramati tanto cari ai fotografi e ai giornalisti, non fecero molto altro. Per fortuna. Anche perché la maggior parte delle bestie non morì, ma si riprese egregiamente. Fece notizia tuttavia la morte pietosa di un uccello molto raro, una pulcinella d’acqua con il becco variopinto (molto noto in Inghilterra con il nome di “puffin”).
“GUAI A VOI SE FOTOGRAFATE!”
Quello che balzò agli occhi fin da subito fu che il vero disastro non l’avrebbe patito l’ambiente, ma il turismo. I giornali (quotidiani e altre riviste) seguirono quasi passo passo quella che, così come scrisse saggiamente un corrispondente dell’Espresso, si rivelò una “gara fratricida a minimizzare i propri danni a scapito di quelli del vicino” in cui parteciparono i sindaci delle località più colpite (ma più in generale dell’intero Ponente), i rispettivi assessori e immancabilmente i gestori di stabilimenti balneari e alberghi sparsi qua e là tra Genova e Savona.
Era un clima da tutti contro tutti: i fotografi non dovevano fotografare le spiagge incatramate perché quelle immagini avrebbero potuto ledere gli affari delle città colpite, la Protezione Civile era in parte accusata come responsabile del dramma per inadempienza varie, i soccorsi da terra non erano stati abbastanza efficaci e certamente non erano stati gestiti capillarmente (operazioni che dovevano essere di competenza dei ministeri e delle prefetture).Ma tutti concordi furono sulle decisioni dell’ammiraglio Antonio Alati, comandante della Capitaneria di Genova, che ordinò di rimorchiare la petroliera a largo di Arenzano, cioè lontano dal porto petrolio e dall’abitato, su un fondale più basso. Paolo Arata, uno dei tecnici che affiancarono l’ammiraglio in quei giorni, nonché direttore dello Ierap (Istituto centrale di ricerca sulla pesca), a questo proposito affermò che era sì stata sacrificata la Liguria, ma il Mediterraneo era salvo. Meno fortuna ebbe l’idea di pilotare la macchia galleggiante verso alcune spiagge già imbrattate, nella speranza di salvare del tutto le scogliere di Ponente.
E allora come attirare nuovamente turisti? Il problema se lo posero in molti: e fu un vero e proprio fiorire di fantasiose trovate tra l’ingenuo e il kitch.
Tra le più famose sicuramente va ricordata quella ideata da Carlo Tomagnini, assessore al Turismo della Provincia di Savona e capogruppo repubblicano al Comune di Alassio: assoldate due aitanti modelle professioniste (Mina Formisano, 19 anni e Alessia Lentini, 15 anni) intente a scherzare distese sulla battigia della città del Muretto in costume come se la stagione balneare alle porte fosse tutt’altro che una inquietante incognita. E in mano, quasi a sbeffeggiarlo, il quotidiano “Stampa Sera” con il titolone in prima pagina “Alassio assediata dalla marea nera”.
Era un tentativo di reagire con sprezzo all’eccessiva campagna mediatica denigratoria che gli stati confinanti avevano intentato verso la sfortunata Riviera. In certi casi, come per la “Bild Zeitung”, erano evidenti gli interessi economici che muovevano certe scelte editoriali per esempio per compiacere chi, tour operator e catene alberghiere, voleva dirottare il nostro turismo verso Spagna e Grecia. Carlo Tomagnini poi organizzò, per il ponte del 1° maggio, una maratona internazionale della Riviera Ligure: un paio di chilometri a nuoto, dal molo di Alassio alla prospiciente Isola Gallinara (già parco naturale regionale e in attesa di diventare parco marino nazionale). “Certo” sottolinearono alcuni giornalisti “è un po’ rischiosa come operazione promozionale: se i venti tornano a tirare dalla parte sbagliata e dall’acqua, il giorno della gara, escono concorrenti inzaccherati di tutto punto di ‘crud oil’ addio tedeschi”.
Ma a Ponente le disdette furono molto poche, sebbene invece furono molto numerose le telefonate allarmate dei clienti abituali e non ci furono nuove prenotazioni.
Nel frattempo, all’arrivo della prima macchia di greggio bruciato che si andò a infilare tra la costa e l’isola, diversi dipendenti comunali, bagnini, volontari e soldati si affrettarono a raccogliere in una cinquantina di sacchi il deposito gelatinoso sulle spiagge. Mentre la situazione nella Liguria di Ponente stava lentamente tornando alla tranquillità, oltrepassato Cap Ferrat (dopo aver interessato anche Cap Martin) , il petrolio della Haven raggiunse la “ Baie des angres”, tra Nizza e Antibes . Sulla Costa Azzurra l’onda nera si divise in tre: una prima macchia sotto costa insidiava il litorale tra Monte Carlo e Nizza, una seconda – di circa trenta chilometri – raggiunse Saint Raphael, una terza fece mostra di se al largo di Antibes, ad una cinquantina di chilometri da terra. I Pelican per tutta la durata dell’emergenza raccolsero tonnellate di catrame: solo quelli della città di Nizza ripescavano 18 tonnellate di bitume gelatinoso, che secondo i responsabili del piano Polmar (progetto della Marine National predisposto per la salvaguardia della costa) si sarebbe trattato della maggior parte dell’inquinamento presente tra il Principato e Nizza.
Alla fine di aprile si decise per un’ordinanza che impose il divieto di pesca da Varazze a Noli a tempo indeterminato. Per i pescatori fu un vero disastro: dal 10 aprile infatti già pescavano grumi di greggio assieme a scarsa fauna, ora avrebbero speso ancor più carburante per spostarsi verso ponente. Gli allarmismi della stampa poi fecero calare in maniera preoccupante le vendite; mentre il prezzo del pesce conseguentemente salì. I ristoratori non nascosero le loro preoccupazioni: la maggior parte dei clienti (milanesi e torinesi in particolare) ritenevano che la maggioranza del pesce servito nei ristoranti fosse pescato nel mare locale, mentre la maggior parte proveniva dalla Francia, dall’Olanda e dall’Adriatico. In certi casi gli esercenti furono costretti, per continuare a garantire i loro piatti, a pagare acciughe nostrane ventimila lire al chilo, ossia cinquemila lire in più del costo precedente il 10 aprile. Siccome già il mare era poco pescoso, nei giorni seguenti il prezzo aumentò fino a raggiungere le trentacinque – quarantamila lire al chilo; cosa impensabile in quanto i clienti avrebbero dovuto pagare prezzi proibitivi.
LA HAVEN CHE È IN NOI: TUTTO FINITO?
Tutto finito, tutto dimenticato? Purtroppo no. Ancora in anni recenti notizie allarmanti hanno fatto nuovamente serpeggiare la paura tra la popolazione rivierasca. Secondo alcuni studi i pesci del mare di Arenzano e Cogoleto risulterebbero non proprio in forma e che la flora marina se la passi altrettanto male, invischiata ancora com’è nella melma rilasciata vent’anni fa dalla petroliera. Ciò che ha fatto più scalpore è stata la relazione dell’ICRAM (Istituto Centrale per la Ricerca sul Mare) consegnata nelle mani della magistratura nella seconda metà degli anni Novanta. La situazione dei fondali sarebbe ancora più grave di quanto favoleggiato negli anni passati da sub e pescatori: le immagini “ufficiali” infatti mostrano ammassi compatti di petrolio ad una profondità compresa tra i -340 e i -498 m.s.l.m. davanti al borgo di Arenzano. Le analisi hanno stabilito che si tratta di greggio fuoriuscito dal relitto nel 1991.
Nella relazione dell’ICRAM si può infatti leggere: “Le ispezioni effettuate hanno evidenziato che gli idrocarburi versati in mare dalla Haven hanno colpito in particolare il litorale compreso tra Vesima e Varazze […] Sulle spiagge tra Arenzano e Cogoleto si è rilevata l’infiltrazione di idrocarburi nella sabbia, sino a profondità superiori a 30 centimetri […] Le numerose scogliere, pennelli artificiali e opere portuali hanno costituito siti di accumulo di residui del greggio versato, solo parzialmente bonificati.”
Nel 1994 anche l’Università di Marsiglia condusse una ricerca sull’inquinamento prodotto dalla Haven riscontrando che “la natura del petrolio e le condizioni ambientali non sembrano favorire un processo naturale di decontaminazione”.
Sempre nel 1995 l’ICRAM si interessò alle ostriche: analizzò diversi campioni prelevati sul relitto, dove vi è una incantevole proliferazione di questa leccornia. Vennero rilevate quantità di idrocarburi superiori a quelle registrate nel porto di Marghera. Il biologo Ezio Amato (consulente tecnico della magistratura), calatosi a -800 m.s.l.m. all’interno di un batiscafo dell’Ifremer, a questo proposito ha affermato: “Non si può escludere che la contaminazione della rete trofica possa interessare la salute umana. Indubbiamente la fauna è esposta agli effetti cancerogeni, teratogeni e mutageni del catrame, in particolare degli idrocarburi aromatici che secondo le analisi effettuate si trovano in forte concentrazione. Ci vorranno secoli prima che il bitume, mineralizzandosi e coprendosi di sedimenti, riduca sensibilmente il suo potenziale inquinante. I danni causati sono per lo più permanenti. I pesci sono aggrediti dagli idrocarburi tramite ingestione diretta o di prede inquinate a loro volta e inoltre assorbono l’inquinamento attraverso gli epiteli delle branchie e del corpo”.
Dal punto di vista della popolazione umana invece, i più esposti risulterebbero coloro che risiedono nei pressi delle zone contaminate e che inalano pertanto “le frazioni gassificate del greggio”. Ma la maggior parte della contaminazione avverrebbe a causa dell’ingestione di fauna inquinata.
Pertanto, nella relazione allegata agli atti del procedimento penale conclusosi nel 1999, si legge che le indagini “hanno consentito di accertare che i residui di idrocarburi ancora presenti nel relitto costituiscono una sorgente di inquinamento mai esaurita che ha effetti cronici sull’ambiente”. Questo strato di greggio sparso sui fondali e dalla consistenza vischiosa e leggera, sarebbe stata la causa principale della riduzione al 50 per cento del pescato: i greggio si sarebbe infatti particolarmente accanito sul nutrimento base della fauna come le fanerogame e il benthos. La fauna protetta stessa della Liguria, come ad esempio numerosi cetacei, sarebbe – in questo senso – stata contaminata. Stando agli esami dell’Istituto centrale di ricerca applicata al mare le conseguenze dell’inquinamento si faranno ancora sentire a lungo in quanto il greggio “grazie alle temperature del Mediterraneo che non scendono mai sotto i 13 gradi centigradi, non si è cristallizzato, mantenendo un livello di fluidità tale da poter scorrere sul fondo, o, in presenza di profondità minime, da tornare in superficie continuando la sua letale opera”.
Si deve tenere conto che a fronte delle accuse di grave inquinamento che durerebbe per secoli innanzi ad Arenzano e alle altre località della Riviera nei pressi della rada genovese, il risarcimento danni è stato “irrisorio”: meno di un milione di lire a tonnellata. Solo 117 miliardi di lire in tutto, che sommati ai soldi già stanziati precedentemente l’arrivo della somma sborsata dalla compagnia dell’armatore Haji Ioannou Lucas, facevano 200 miliardi. La colpa del disastro venne data in toto al comandante, ovviamente perito nel disastro. L’associazione temporanea di imprese costituita da otto società dell’Iri e dell’Eni stilò una quantificazione del danno che raggiunse i 1.200 miliardi di lire. Allo stesso tempo il WWF diramò un messaggio rivolto al governo italiano perché non accettasse un risarcimento che fosse stato inferiore ai 780 miliardi li lire calcolati dall’Avvocatura di Stato.
L’IOPCF (Il Fondo internazionale per l’inquinamento da idrocarburi) non riconobbe il danno ambientale. Il governo italiano non si oppose a questa decisione.
A questo proposito l’ex sottosegretario all’ambiente Valerio Calzolaio disse in un intervista: “Lo Stato avrebbe potuto battersi con più determinazione per il riconoscimento del danno ambientale, ma è intervenuta una decisione unanime del Parlamento che ha impegnato il Governo a percorrere la soluzione della transazione”. L’allora Governo Berlusconi 2005 dirottò 8 milioni invece che alla Protezione Civile per bonificare la Haven, per bonificare l’inquinatissimo sito della Stoppani. Disastro contro disastro. L’opera di bonifica si concluse nel 2008, con grande attenzione dei media di tutto il mondo.
Se si pensa che oggi il nome Haven è quasi esclusivamente sinonimo di turismo subacqueo non ci vuole molto a comprendere la fatica nel cercare di capire nel 2016 cosa successe a pochi metri dalla costa e quali conseguenze quei lontani giorni di aprile portarono nell’assetto economico–sociale delle zone della Provincia di Genova e Savona. Ad Arenzano nel frattempo è nato il MUVITA, un vero e proprio museo-laboratorio che, prendendo spunto dal disastro, si occupa di divulgazione scientifica e preservazione dell’ambiente. Tra allarmismi esagerati, iniziative assurde, problematiche logistiche, colpevolizzazioni, accuse ingiustificate e clamorose smentite (il tutto sullo sfondo di una Riviera soffocata dal petrolio, dove i gabbiani e i cormorani morivano invischiati nel catrame e i pesci venivano pescati tra grumi di greggio), la Liguria riuscì a superare la difficile situazione.