Una convivenza forzata è ciò che si registra oggi a Idomeni, piccolo centro al confine tra Grecia e Macedonia, tristemente divenuto l’ imbuto d’Europa.
da Idomeni, Bruno Tigano
Marc Augé, antropologo francese contemporaneo, definisce “nonluoghi le stazioni […] i campi profughi […], tutti spazi fisici accomunati dal fatto di avere progressivamente eliminato il ruolo dell’interazione, a vantaggio della creazione di ”zona franca” all’interno della quale incontrare altri individui senza interagire con loro […] La presenza crescente di non luoghi all’interno delle società contemporanee evidenzia la progressiva riduzione del margine di libertà d’azione e di interazione degli individui, a partire dal quale si costruisce la cultura, in maniera tale che l’Altro diventa solo un’altra immagine di noi stessi.”
Luoghi che non operano alcuna sintesi né integrano nulla, autorizzano, solo per il tempo di un percorso, la coesistenza di individualità distinte, simili per destino e variegate per culture e tradizioni.
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Una convivenza forzata è ciò che si registra oggi a Idomeni, piccolo centro al confine tra Grecia e Macedonia, tristemente divenuto l’ imbuto d’Europa. Migliaia di migranti (l’ultimo censimento di Medici Senza Frontiere, parla di 11.932 persone) siriani, afghani, iracheni, pachistani, curdi vivono lungo i binari della stazione ferroviaria, che nel corso di poche settimane ha sostituito i propri passeggeri con una distesa quasi infinita di tende variopinte; cristallizzando così un viaggio iniziato da terre lontane, nel limbo di un nonluogo di frontiera che si protrae ormai da quaranta sessanta o, nei casi più estremi, ottanta giorni. Una stazione dove la vita scorre lenta, su un binario parallelo di una quotidianità che ha assunto lo stesso incedere ritmico di un’esistenza qualunque: attimi di convivialità consumati in allegria attorno a bracieri improvvisati, giocattoli arrangiati e panni stesi tra tende colorate, avvolti dal fumo acre che rende irrespirabile l’aria di Idomeni.
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Esistenze differenti, ciascuna con un proprio trascorso, unite da una speranza comune celata dietro la richiesta “Open the border”, urlata quotidianamente da donne e bambini, giovani ed anziani, il cui unico desiderio è quello di proseguire il viaggio, in un altalenante susseguirsi di lacrime di addio e abbracci di ben ritrovato. Una dimensione che fluisce lenta, tra code interminabili, concitata negli attimi di affermazione della dignità umana. Le radici della speranza affondano anche nel suolo di Idomeni?