di Cecilia Dalla Negra, Osservatorio Iraq Nord Africa e Medio Oriente
Gerusalemme è una foto. Scattata in un giorno di sole tiepido e vento leggero alla porta di Damasco. Quel vento che più tardi, e più intenso, scuoterà le palme che la circondano colorandola del rosa del tramonto.
Gerusalemme sono le parole di Maha, palestinese nata e cresciuta in Giordania, che mi scrive quando gliela invio. “Portami da te con il vento e facciamo insieme una passeggiata per i vicoli della città vecchia. Salutami ogni pietra, ogni città, ogni palestinese che resiste”.
Gerusalemme è un odore. Quello forte, di timo e menta, che pervade ogni strada e ti da il benvenuto. Sei tornato a casa.
E’ un colore. Il giallo sbiadito delle pietre, il rosso vivo dei tessuti venduti nel suq, il verde del prezzemolo pulito dalle donne sul selciato delle sue strade; l’oro della cupola e l’azzurro dei suoi marmi, che levano il fiato nelle giornate di sole.
E’ un dattero. Offerto da una giovane coppia di al-Khalil, che per la prima volta visita la città negata con la scusa di una visita medica. E una domanda a cui è doloroso rispondere. “Cosa si dice di noi palestinesi, da voi?”.
E’ un sorriso. Di un anziano signore che si porta la mano al capo in segno di saluto mentre indica la strada per uscire dal labirinto intricato dei suoi vicoli, che confondono il senso dello spazio, e soprattutto del tempo.
E’ lo sguardo triste di Yaser, che contempla le sue luci notturne dalla collina di Beit Jalla. “Guarda, quella è Gerusalemme. Io posso solo osservarla da qui. Quando tornerai, domani, respirala per me”.
Gerusalemme è occupazione del cielo, assurdità e paradosso.
E’ un sentimento dai contorni sfumati fatto di mura e mattoni: il senso di qualcosa che si è perso senza averlo mai avuto. Di ciò che sarebbe potuto essere, e non è mai stato.
È hanīn, nostalgia.